Esistono segni che donne e uomini talvolta lasciano nel morire. È come se il loro corpo non andasse via per sempre, ma diventasse una traccia nell’oblio. E la terra è piena di orme e scie – disseminate su rocce, pendii, nelle acque e per le strade – che testimoniano di messaggi spesso indecifrabili spuntati nel momento dell’addio. I poeti sono bravi a scovarli e riescono nell’intento, se spinti dal desiderio di non annegare nell’infinitezza: entrano, così, come sonde, nell’immensità del silenzio. È un tuffo nell’acqua sorgiva della vita, con la coscienza che coglie i segni della realtà e via via la definisce. È quanto accade a una bimba di nove mesi, cinquantasette anni fa, abbandonata nel parco di Villa Borghese, poche ore prima che la madre e il padre decidessero di dare l’addio alla loro vita, scivolando sereni nelle acque tombali del Tevere. Lucia, la mamma, era una contadina laboriosa e risoluta di 29 anni; il compagno, Giuseppe, un muratore maturo e stanco per un’esistenza aspra e grama. Quella bimba, lasciata sola in grembo al mondo, investiga, dopo più di mezzo secolo, dentro la sua storia e recupera la portata strategica del gesto materno, convincendosi che l’andare via dal tempo di mamma Lucia era stato un disperato tentativo di lasciare il suo corpo vivo dentro un tempo ostile, un tempo chiuso a doppia mandata agli ultimi e resistente a ogni richiesta disperata di soccorso.
La bimba di allora è Maria Grazia Calandrone di oggi, voce autorevole della poesia contemporanea, ma anche drammaturga, artista visiva e conduttrice Rai, che nel suo libro Dove non mi hai portata – Mia madre, un caso di cronaca (Einaudi, pagine 247, 19,50 euro) orienta il fascio poetico che illumina la vita della mamma suicida. Il gesto estremo della giovane Lucia, inquadrato sotto la lente del dantesco “intelletto d’amore”, diventa così una rinuncia dal sapore profetico, affinché la vita della piccola non diventasse destino cupo e irrimediabile e la sua esistenza non si confondesse nel dilagare orribile dell’orfanezza massificata negli istituti spettrali del tempo. L’amore materno che dannava Pasolini, confinandolo in una dipendenza angosciosa, qui diventa un’indagine serrata per il recupero dei fatti avvenuti ma anche delle abissali armonie che li sottendono, sprofondate lungo l’orlo di un fiume, tra i frantumi e i bagliori scorti nella violenza sociale di un paese privo di pietà. Un’Italietta che, per gli ultimi come Lucia, somministrava afflizioni e dolori, svuotando le vite e trasformando donne e uomini in antiprotagonisti di una patria arcaica dell’oblio, nei Vinti della contemporaneità.
Maria Grazia era nata fuori dal matrimonio, perché sua madre aveva intravisto una possibilità di vita oltre la cecità del suo tempo – «ingroviglio di vergogna, omertà e colpa» – che, poi, l’aveva sepolta. Donna semplice, ma vigile e risoluta, aveva cioè colto il lampo di un’esistenza possibile oltre la sua notte fonda, divenuta ancora più nera dopo il matrimonio impostole con Luigi. Un uomo rude e impotente, Luigi, che nella dura e avara campagna molisana l’aveva portata ad abitare in una “buca” senz’acqua e corrente elettrica, riservandole quotidiani gesti di disamore e bestiale violenza. È un simbolo, Luigi, che costringe la moglie ad andare nei campi spingendola con il forcone dei maiali, di una civiltà di maschi caparbi e ottusi, animati da un’arcaica subcultura di genere, alla quale Lucia si ribella dopo anni di fame e maltrattamenti. Riesce finalmente a fuggire e tenta di costruire, nella Milano industriale delle facili promesse, un mondo di luce, con un nuovo compagno e la bimba nata dalla loro unione. Ma su queste tre povere vite cala la pressa di una società ipocrita e bigotta, che li marchia con il bollo del pregiudizio e del reato, negando loro pane e respiro.
La lettera con la quale Lucia confessa al mondo, come in un privato proclama d’amore, di aver lasciato la bimba nel parco di Villa Borghese, non è indirizzata alle autorità, ma al quotidiano l’Unità, che conduceva già in quel tempo ardue battaglie per la difesa dei diritti. Lucia e Giuseppe colgono in quella comunità di lettori comunisti una possibile area di riscatto e di lotta contro le ingiustizie e gli avvilenti codici moralistici dell’Italia del boom economico. Coltivano, così, la sofferta e terminale speranza che Maria Grazia possa essere adottata da una «famiglia sensibile e studiata», che leggeva quel giornale. Cosa che poi avviene per davvero. Non solo la bimba non è trascinata dai genitori nella morte (iconico il titolo del libro), ma è sospinta verso la laica speranza della fede nel progresso e nella giustizia sociale.
La ricerca retrospettiva della madre – dal suo povero, luminoso volto alla simbologia dei suoi oggetti; dai luoghi mesti del suo agire quotidiano al pianificato, definitivo gesto finale – è condotta da Maria Grazia Calandrone con lo spirito del miglior giornalismo d’inchiesta. Attimi recuperati al tempo vorace, minuziose circostanze, testimonianze dirette cercate nel brontolio mesto degli intermittenti silenzi, documenti rivelatori e foto illuminanti sono allineati in un flusso avvincente che recupera un mondo lontano e anaffettivo, purtroppo ancora presente nelle inconsce profondità delle coscienze contemporanee. Maria Grazia Caladrone, un anno fa, in Splendi come vita, aveva esplorato il tormentato rapporto con la madre adottiva. In questo romanzo, invece, diventa il genitore premuroso della sua indifesa e coriacea mamma («Adesso vengo a riprenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano»). Capovolgimento compiuto nell’area di una poesia palpitante, che alimenta una prosa ricercata e battente e restituisce la a-temporalità dei sentimenti al senso di un’auspicata storia nuova. Un abbandono alla luce della verità di chi si è fatto mendicante del suo stesso essere, consegnandosi al nascere di una giustizia ultima, ricercata con puntuale determinazione contro ogni forma di umana passività “metafisicamente” imposta e spesso vissuta anche dalle persone più fragili della nostra contemporaneità.