De Maria, quando il collezionismo diventa arte

Riflessioni e rinvii psicoanalitici relativi a un grande amore per le testimonianze artistiche, in margine a una mostra che ha proposto a Benevento quarantotto opere, in gran parte dipinti su tela, alcune carte intelate e 5-don't say a word di Massimo Festi eseguiti con lambda print.

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“Quando un grande collezionista pubblica il sontuoso catalogo dei suoi tesori, esibisce bensì una collezione, ma solo in casi rarissimi il suo genio collezionistico”, è quanto si legge in un breve scritto che Walter Benjamin dedica al collezionismo.

Trova fondata tale rilievo, alla luce dell’attualità ove collezioniste e collezionisti fanno a gare a mostrare i propri gioielli della contemporaneità, a mio avviso suggestionati molto dal mondo degli affari e dell’economia.

Uno scenario di trame che si muovono all’interno di un mercato che registra cifre stratosferiche, mettendo nell’angolo la ricerca individuale, la curiosità e la conoscenza: tutto è superfice che si specchia nel teatro mondano dei nostri giorni.

Va detto anche che non c’è, nella storiografia dell’arte, un saggio che, esemplificando l’ampia disciplina della moderna museologia e del collezionismo, ci dia una visione delle diverse prospettive sulle quali si muovono i mecenati della contemporaneità. Non sono in cerca di un ‘dizionario’ di nomi, tipo ‘pagine bianche’, né volumi non privi di una certa scientificità come quello apparso nel 2018 di Roberto Colantonio; altrettanto insoddisfacenti risultano le relazioni contenute nella ricerca, promossa da Intesa SanPaolo e resa nota nel 2020. La necessità è di confrontarsi con testi che porgono attenzione all’identità del collezionista, alla sua volontà verso un lascito pubblico – tanti sono oggi gli esempi in Italia – oppure alle motivazioni che, sia pur scarne, vanno al di là dei processi di tesaurizzazione segnati dall’accaparramento.

La domanda resta la stessa, ogni qualvolta si ripropone, nelle mie riflessioni la figura del collezionista. È la stessa domanda che Corrado Maltese, in Guida allo studio della storia dell’arte, si poneva nel 1975: quali sono i motivi che spingono un individuo ad acquisire per sé un’oggetto d’arte?

Domanda alla quale è difficile rispondere se si ha la pretesa di trovare una chiave che consenta di aprire le tantissime, diversificate, singolari esperienze.

Provo a rispondere, inducendo il lettore ad ‘attraversare’ la collezione che Tonino De Maria ha raccolto nell’arco di oltre trent’anni. Dalla fine degli anni Ottanta, decennio nel quale si registra, soprattutto in Italia, in Germania e negli Stuti Uniti, una sorta di ritorno alla pittura o meglio, all’esercizio delle pratiche e degli strumenti del “fare” arte.

Lo sguardo del collezionista. Trent’anni di arte contemporanea nel Sannio, è il titolo che, con Ferdinando Creta, Tommaso De Maria e Francesco Creta abbiamo voluto dare a questa mostra che ha proposto, nella suggestiva sede del Museo ARCOS di Benevento quarantotto opere, in gran parte dipinti su tela, alcune carte intelate e 5-don’t say a word, di Massimo Festi eseguiti con lambda print.
Ho conosciuto Tonino sul finire degli anni Novanta, quando la sua collezione aveva già preso una certa caratterizzazione e viaggiava complanarmente all’attività di gallerista nella vecchia sede di Art’s Events a Torrecuso. A farci conoscere fu Ferdinando Creta, con il quale avevo lavorato alla Reggia di Caserta, in occasione dell’allestimento della mostra “Il tesoro delle banche. Pittura e scultura in Italia 1915-1945” che curai con Luigi Paolo Finizio nel 1997.

Il primo incontro non fu entusiasmante: la sua convinta attenzione agli artisti della transavanguardia e, ampliando il cerchio delle preferenze, a quelli che declinavano un linguaggio proprio di una condizione postmoderna, mi lasciava perplesso. A segnare quella misura di distanza, era soprattutto la sua disattenzione verso le pagine significative delle neoavanguardie napoletane degli anni Sessanta e Settanta, tema centrale, invece, dei miei interessi di studio. Distanza poi subito colmata.

Il confronto, a volte si trasformava in un dibattito acceso sempre spento dall’ironia di Tonino che è, indiscutibilmente, genuina e saggia.

Dal confronto veniva fuori l’anima del collezionista e, al tempo stesso, dell’artista ancora nel bozzolo, indeciso nel condividere e mostrare l’esperienza di un processo creativo, di una personale prospettiva immaginativa. Con il tempo, frequentandoci con una certa assiduità, abbiamo costruito l’ordito di una vera amicizia che ci consente di poter scambiare le nostre opinioni, le nostre riflessioni sulla condizione dell’arte oggi.

Il Tonino pittore è una figura interessante: porta con sé tutti gli echi del mondo e delle vicende umane che hanno caratterizzato e caratterizzano la scena di questi ultimi decenni. Sul piano pittorico, nelle sue carte, nelle tele v’è il colore dei Neuen Wilden, dei transavanguardisti italiani e non solo, insomma di quella pittura che trionfa negli anni Ottanta e che, penso di non cadere in errore, ha segnato profondamente l’immaginario del Nostro.

Torniamo al collezionista. La domanda posta in apertura potrebbe trovare una possibile risposta, separando i due aspetti della personalità di Tonino De Maria, aderendo, in primis, perfettamente alla tesi di Walter Benjamin: “Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti della sua vetrina. Non appena ne prende in mano uno, il suo sguardo ispirato sembra trapassare l’oggetto e perdersi nelle sue lontananze. Di qui il lato magico del collezionista”. Infatti il collezionista sistematico dà priorità all’incontro con l’oggetto d’arte.

L’altro aspetto è quello di colui che ha fatto nascere la propria collezione, avrebbe detto Calvino, dal “bisogno di trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie di oggetti salvati dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate, fuori dal flusso continuo dei pensieri”. È una lettura che, in chiave psicoanalitica e accogliendo la definizione di archetipo suggeritaci da James Hillman, cioè “modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo”, ci riporta all’origine, alle radici di quel processo di confronto, dettato da una forte empatia (ma anche di una sincera curiosità) che, nel tempo e con un continuo ‘crescendo’, ha caratterizzato l’incontro di Tonino con artisti appartenenti a generazioni diverse tra loro e, soprattutto, espressioni di una molteplicità di linguaggi creativi.

L’elenco è esteso e va da artisti affermatisi sulla scena nazionale e internazionale negli anni Sessanta, penso soprattutto a Giannetto Fieschi, ad interpreti significativi del nuovo panorama del decennio Settanta, come Cattani, Peter Krawagna e poi degli Ottanta con De Stasio, Esposito, Casciello, Lanzione, Mehrkens, Montesano, Laudisa, fino ai più giovani – parlo dei primi del Duemila – Federico Guida, Dany Vescovo, Mustone, Bazan, Festi e Dirk Westermann, per fare solo pochi nomi.

Gli archetipi, nella classificazione avanzata da Jung, si configurano come “schemi comportamentali” che caratterizzano “modi di essere” in relazione al Sé collettivo. Nei dodici che nomina Jung, figura il “CREATORE”, quello che più di ogni altro calza al Nostro collezionista-gallerista-promotore. Il CREATORE “ci spinge ad avere coscienza – si legge nella definizione del dizionario junghiano – di ciò che rappresentiamo e del ruolo che abbiamo nella creazione della nostra esistenza. Si nutre in bilico tra un senso di timore e di euforia relativi ad un lavoro di ascolto interiore. Per questo, tende a divenire saggio nelle scelte di vita”.

È questa presa di coscienza che Tonino, senza alcuna preterintenzionalità, ha dato alla sua azione di promozione dell’arte contemporanea nel suo territorio: un’energia che ha coinvolto un flusso di giovani artisti, scrittori, critici che hanno frequentato e oggi frequentano la galleria curata da suo figlio, Tommaso. La sua è, dunque, un’esperienza che si fa espressione di una necessità d’identità esistenziale, di sentirsi nel presente, avvertendo il “ bisogno di trasformare lo scorrere della propria esistenza” come avvertiva Calvino.

Le scelte che negli anni ha operato, l’intenso amore per la pittura, il desiderio di vedere le piazze affidate all’Arte ambientale, con sculture sparse nei centri della sua terra, corpi creativi che parlano dei luoghi, dei segni dell’uomo, sono le tracce vive di un funambulo sospeso sulla contemporaneità.

Massimo Bignardi

Classe 1953, ha studiato, con Enrico Crispolti, Storia dell’arte contemporanea. Già professore di ‘Storia dell’Arte contemporanea’, presso Università di Siena ove, dal 2008 al 2016, ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici. È stato commissario della XI e XIV ) Quadriennale d’Arte Nazionale. È, dal 2002, direttore del Museo-FRaC Baronissi. Di recente è stato nominato, per il trimestre 2023-2025, curatore del Premio Internazionale Bugatti-Segantini.

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