Lui è Rocco Scotellaro: poeta lucano di Tricarico.
Morto a 30 anni per infarto (1923-1953).
I versi di seguito (premonitori?), sono suoi.
“Oh non fossi mai nato
se mi tocca la morte…
Sulla polvere raggranellata
gioca l’ultimo soffio
e i cani riprendono la loro canzone
sguaiata della notte.”
Lei è Francesca Armento, sua madre.
Morta a 84 anni (1884-1968).
Aveva fatto solo le elementari, Francesca, ma fare le elementari ai suoi tempi era segno di distinzione, infatti oltre ad aiutare il marito, ch’era calzolaio, a cucire da sarta e istruirne le giovani, faceva da scrivano per chi era analfabeta, in particolare per gli emigranti. Questo la portò negli anni ad avere molta dimestichezza col racconto orale. Suo figlio Rocchino riteneva che la capacità di sua madre di maneggiare la lingua parlata, e poi trasferirla in quella scritta, fosse una rara virtù collegata all’arcaico, per questo la incitava a scrivere. Di lei che scriveva, Rocco dice:
“Raccontare per lei, è mettere in testa a un altro ciò che si tiene in testa propria.”
“La lingua di mia madre è la misura di tutto il paesaggio, degli uomini e delle donne della Basilicata.”
Ebbe cinque figli, Francesca, tre maschi e due femmine, e Rocco era il quarto.
Quando il figlio Rocco era ancora vivo, Francesca scrisse tre racconti (L’amore, Il vicinato, Il giorno dei morti, compresi sotto il titolo Racconti sconosciuti). Lui glieli commissionò certo che avrebbe ben narrato fatti e sentimenti di quel mondo contadino.
Un mese dopo la sua morte, sollecitata da Manlio Rossi Doria, scrisse invece Dalla nascita alla morte di Rocco Scotellaro, inserito nel libro del figlio Contadini del sud, pubblicato postumo nel 1954.
Testo magico rilanciato
dall’attore Ulderico Pesce
La prima volta che venni a conoscenza di questo scritto di Francesca Armento, fu ascoltandolo nella trasposizione teatrale dell’attore e regista Ulderico Pesce. Ne restai molto impressionata e volli leggerlo.
È vero, ci sono le tragedie greche che testimoniano come un lamento funebre, peculiarmente femminile, possa tradursi in intensi, a volte sublimi, tragici gesti e parole, ma a me il lamento straziato di Francesca, che Ulderico Pesce recita grida e sussurra spesso sull’ultimo fiato, dà i brividi sin dalle prime battute, aure già presagio di disgrazia.
Racconterò la storia di Rocco estraendola dal racconto di Francesca, che inizia parlando della nascita del figlio. Ha un incipit folgorante. Quando nacque, Rocco, aveva addosso una pellicola rappresa di viscosità umorali del parto e muchi. L’immagine che lei offre è quella di un velo che avvolge il neonato. Un velo grande come un tovagliolo, che le donne che assistono al parto gli srotolano di dosso, liberando il corpicino, e stendono ad asciugare. Dopo che si è asciugato il padre lo piega e se lo infila nel portafogli. Quella mattina il paese è in festa. Si va a mettere il segno della croce ai caduti in guerra. Suonano e cantano giovinezza primavera di bellezza.
“Quel bimbo sarà
un grande uomo”
Il velo e la musica che arriva, sembrano di buon auspicio ai due genitori, che già fantasticano su che grand’uomo diventerà il figlio.
I fratelli lo adorano, in particolare la sorella Antonietta, che lo accudisce da mammina quando la madre è impegnata nel lavoro. Un giorno, mentre Antonietta ha le labbra aperte per baciarlo, Rocchino le fa la pipì in bocca. Questo aneddoto in famiglia è sempre ricordato, così che Scotellaro poeta più avanti ci scrive su una poesia. A tre anni Rocco ha il gruppo, una grave infiammazione della gola accompagnata da difficoltà respiratoria. Sta malissimo ma si salva. A 4 anni già compita le vocali. A 5 anni copia le lettere grandi dai giornali. A 6 con una bacchetta in mano raggruppa ragazzi su una gradinata per istruirli e se la madre lo chiama per desinare, risponde di aspettare, ché deve insegnare a quelle teste d’asino. Gioca a fare il maestro, ma in effetti già ne pratica il ruolo.
Dopo le elementari visto che i genitori non hanno i mezzi per mantenerlo agli studi in città, grazie a una raccomandazione viene spedito a Sicignano degli Alburni prima, Cava de’ Tirreni poi, a studiare dai francescani. Lì patisce assai: rigide regole e poco cibo, nonostante i suoi da casa ne mandino un bel po’, ma quel cibo a lui non arriva mai. Ciò che chiede soprattutto, però, sono i libri. Alla madre scrive: mandate sempre libri, libri sui santi, su qualsiasi cosa, libri.
Studi discontinui
ma esiti brillanti
Francesca racconta di una volta che distrutta dalla lontananza non ce la fa più e decide di andare a visitare il figlio. Lo trova sciupato, avvilito. Egli prova ancora un poco a resistere alle privazioni e angherie del convento, ma infine rinuncia. Farà il quarto ginnasio a Matera, poi il quinto a Tricarico, dove finalmente il ginnasio è stato istituito; il primo liceo a Potenza, il secondo e il terzo (fa il salto) a Trento dalla sorella sposata. Sempre brillante, sempre educato. Arriva poi il tempo dell’università e si iscrive a giurisprudenza a Roma, ma sempre per ragioni economiche deve cercarsi un lavoro: farà l’istitutore a Tivoli. Gli danno 350 lire al mese, mangiare, dormire, ma accade che il padre è colto da un ictus e in pochi giorni muore, è necessario che lui torni a Tricarico. Si iscrive a Napoli e va solo a fare gli esami, continua ad essere molto bravo. A chi lo esamina, dice: “Chiedetemi quel che volete”.
Il terzo e quarto anno si iscrive a Bari. Gli mancano ormai pochi esami ma i socialisti fiutano che è di grandi ideali e bravo a fare discorsi e non lo mollano più. Per le conseguenze della guerra e l’impegno politico interrompe gli studi. All’età di 23 anni lo eleggono sindaco.
Il sindacato
di gioie e dolori
Rocco sindaco accoglie chiunque, non solo al municipio ma anche a casa sua, che ha sempre la porta aperta, e aiuta tutti quelli che hanno bisogno, anche di propria tasca. Ma una sera la casa di Francesca si riempie di gente, c’è un’aria strana, solo che nessuno ha il coraggio di parlare. Sino a che Nicola, fratello di Rocco, dopo un pianto disperato rivela: “Mamma, Rocco l’hanno preso carcerato”.
A Francesca non rimangono più capelli in testa, tante botte dà nel muro. È accusato di concussione. I cittadini di Tricarico vanno in processione a Matera, a testimoniare che Rocco è un sindaco onesto. Quello che si impegna di più è Carlo Levi, che fa fare presto la causa a Potenza. Nel frattempo Rocco in carcere si fa amare da tutti e tutti i soldi che gli mandano Levi e gli altri li dà ai carcerati.
Per don Carlo, Francesca vecchia e canuta, per l’eterno avvolta di veli neri, campando con diecimila lire di pensione al mese, preparerà sempre il boccaccio di ciliegie sotto spirito.
A causa fatta, le arriva un telegramma:
“ Rocco è in libertà”. Lei e il popolo impazziscono di gioia, e ne accolgono l’arrivo con grandi festeggiamenti. Rocco è stato assolto con formula piena. Le accuse e la carcerazione sono il frutto di una vendetta politica.
“I miei figli non facevano altro che andare a mettere vino tutta la nottata, se ne consumarono 5 barili, e più dieci litri di liquore e da mangiare quanto ne volevano. E alla fine che avrò finito questo racconto, saprete dove sono andati a finire tanti sacrifizi della povera madre”.
La libertà
riconquistata
Chi desiderava che Rocco marcisse in carcere e venisse sostituito da un altro sindaco, si sbagliava. Lui è ancora sindaco, non solo, ma si mette in testa di far costruire un ospedale a Tricarico e ci riesce. Ora anche la gente che non ha possibilità economiche può curasi. Poi Carlo Levi fa conoscere Rocco al dottor Rossi Doria, che prende a ben volerlo e lo fa trasferire a Portici, all’università agraria, dove lavora per l’osservatorio e di sera scrive poesie e racconti. Scrive sempre di più, comincia anche a prendere premi. Però Francesca desidera intensamente che si laurei, glielo chiede di continuo. Lui prima si schermisce, dicendo che tanto l’avvocato non lo può fare perché un avvocato deve anche saper essere imbroglione e lui non lo è. Poi la rincuora… prenderò sta laurea per vederti contenta. Solo che per prenderla dovrò dedicarmi per un po’ solo agli esami e alla tesi, ma farò così. Dopo resterò sempre a lavorare col dottor Rossi Doria, che con lui mi trovo bene. Lavorare per lui, e scrivere. L’editore Laterza mi ha chiesto di pubblicare un libro, ho tanto da fare.
Ma ecco in agguato il dies irae. Il 5 dicembre Rocco torna a casa a Tricarico ma non si sente bene, gli viene da vomitare, è digiuno da un giorno. Ha la pressione bassa, si sente stringere la gola. Gran via vai di medici che lo visitano e gli ordinano il riposo. Gli fanno punture ogni due ore. Rocco continua a non star bene, ma in pochi giorni la pressione del sangue piano piano migliora. Arriva anche Rossi Doria da Portici, recando altri dottori. È intenzionato a portarlo con sé per farlo visitare a Napoli. Ora la pressione è 120. I medici di Tricarico danno il loro assenso, se non altro a Portici non avrà l’invasione di visite che ha qui.
Quella dolorosa
falce della morte
A casa di Rossi Doria rimane il sabato e la domenica, lo trattano come un figlio, ma il lunedì manifesta di voler tornare nella sua stanza in pensione, e lì sta due giorni. Si mostra allegro, scherza.
Scrive alla madre:
“Cara mamma, sto meglio ma non tanto. Ti prego fammi trovare la stufa nella mia stanza: non badare a quello che costa, ché spero in appresso non ti mancheranno. Ringrazia il fratello e la moglie che si sono prestati a curami ora che stetti a letto. Vogliatevi bene, baci a tutti, Rocco”.
Parole di Francesca:
“Dopo scritto, cantava, ballava, e disse “Stasera voglio cenare a tavola con i compagni.” Mentre la padrona della pensione metteva da mangiare a tavola, si mise la mano alla fronte, prese per mano la signora, e cadde a terra. La signora credeva scherzasse. Lo presero per portarlo a letto: aveva chiuso gli occhi per sempre alle otto e mezzo.”
Bussano a casa sua a Tricarico alle 4 di notte per dirle che Rocco sta male, ma lei non ci crede, è angosciata dalla sera precedente, quando il loro cane ha abbaiato e guaito per ore, pensa che è morto. Quando si mettono in treno per raggiungere Portici, alle sei del mattino, le dicono la verità e anche questa volta lei non ci crede, vagheggia che sia ancora vivo.
Quando arriva da Rocco, disteso sul letto di morte:
L’eredità d’affetto
e dei suoi scritti
“Figlio mio che sonno lungo che ti fai, perché non mi rispondi, perché mi hai abbandonata? Come farò? Io vecchia devo vivere e tu giovane sei morto… Ho perduto il mio tesoro, il mio bastone, la mia speranza, la mia grandezza. Dove sono andate tante sue fatiche?… Non poteva morire a tre anni col gruppo, non poteva andare altre dieci volte carcerato, che tenevo la speranza di rivederlo!”
Peccato morire così giovane.
Non aveva compito 31 anno.
Tutto il popolo l’ha pianto.
Lui è andato a godere l’altro mondo
restando tutto a lutto il nero manto.
Ecco la morte col suo falcione
che tira da lontano e da vicino:
come ha troncato il povero Rocchino!
Ha detto a tutti-Addio madre,
fratello, sorelle, amici, parenti,
vado a godere il cielo eternamente.
Sono la madre afflitta sconsolata,
il mio figlio la morte me l’ha troncato,
ho perduto tutte le mie grandezza,
il mio tesoro era lui, la mia ricchezza.