Con Mariangela Palmieri viaggio negli immaginari del Novecento

Incontro con una studiosa che ha saputo far convergere e intrecciare la storia contemporanea, le grandi narrazioni per immagini del secolo scorso, la storia del cinema e i media, strumenti alleati per penetrare la realtà contemporanea. Due grandi maestri presso l'Unisa, Cavallo e Iaccio, una “famiglia accademica” motivante e uno spazio importante dedicato al volontariato e ai viaggi.

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La docente e ricercatrice Mariangela Palmieri

Una ricercatrice vivace, brillante e intelligente. Una persona empatica e ambiziosa. Mariangela Palmieri si definisce una studiosa “ibrida” – e, in effetti e per fortuna, lo è! – perché, da sempre, ha saputo far convergere e intrecciare la storia contemporanea e i grandi immaginari del Novecento e la storia del cinema e i media, in generale, come strumenti per studiare la realtà. Due grandi maestri, una “famiglia accademica” e uno spazio importante dedicato al volontariato: la conversazione con lei è stata fluida come poche e piacevolmente arricchente.

Lei insegna Teoria e tecniche della comunicazione cinematografica all’Università degli Studi di Salerno e le sue ricerche si incentrano sul rapporto tra cinema e storia. C’è un legame inscindibile tra gli audiovisivi e gli immaginari del Novecento: ce lo racconta?

Io nasco come storica del cinema. Bisogna tener presente che ci sono insegnamenti molto diversi per gli studiosi di cinema perché lo si può studiare da tantissimi punti di vista. Nel mio caso specifico, attualmente ho questo insegnamento di comunicazione o linguaggio cinematografico, però in passato ho avuto e avrò anche dal prossimo anno degli insegnamenti di Storia del Cinema. Sono un ibrido e quello che faccio lo fanno in pochissimi: metto insieme la storia contemporanea e gli audiovisivi. Appartengo a quella scuola che ha dei riferimenti importanti anche in questa università – i miei maestri Piero Cavallo e Pasquale Iaccio – che crede nell’utilità degli audiovisivi e del cinema come fonte storica. E il lavoro che ho sempre fatto è ragionare sul cinema e sugli audiovisivi come uno strumento per mettere a fuoco e definire quelli che sono gli immaginari del Novecento. Perché, in effetti, ci sono degli aspetti della storia contemporanea che riguardano la storia della mentalità, il discorso degli immaginari che possono essere indagati prevalentemente attraverso i media come il cinema, ma anche la televisione, e non soltanto tramite le fonti tradizionali. Il tentativo è quello di tenere insieme uno sguardo sul Novecento attraverso l’analisi dei media. Questo è uno dei possibili approcci.

Qual è il suo rapporto con i suoi maestri – così come ha definito Pasquale Iaccio e Piero Cavallo – e come hanno influenzato la sua carriera?

Sono stata molto fortunata. Anche se ho avuto una carriera non lineare, con delle difficoltà – come spesso accade in accademia – ho avuto la fortuna di avere questi due riferimenti scientifici che mi hanno insegnato tanto. Li ho conosciuti entrambi quando ero studentessa a Scienze della Comunicazione e, letteralmente, mi sono innamorata del loro modo di fare storia e storia del cinema. Io ricordo sempre quando seguivo il corso di Storia contemporanea del professore Cavallo durante il quale sono stata folgorata e meravigliata dal fatto che ci facesse vedere dei film per farci capire alcuni aspetti della storia del Novecento. Poi ho fatto l’esame di Storia del cinema con il professore Iaccio e ho capito che quelle materie mi piacevano tantissimo. Loro hanno sempre lavorato in tandem e avevano delle pubblicazioni comuni, in questo modo mi hanno trasmesso un approccio particolare e l’amore per queste discipline e per il loro intreccio. Per altri aspetti sono state due persone che mi hanno insegnato e dato molto a livello umano. L’università può essere un luogo molto difficile dove costruire dei rapporti sani e io ho avuto la fortuna di crescere in una piccola famiglia accademica di cui fanno parte i miei maestri, ma anche altri colleghi uniti da rapporti veri. Quindi, maestri da una parte che mi hanno insegnato a fare ricerca però anche persone che umanamente mi hanno dato molto e mi hanno fatto sentire a casa.

Qual è il suo background culturale e quale è stato il suo percorso di formazione?

Ho avuto una formazione tutta legata all’Università degli Studi di Salerno. Questo oggi viene visto un po’ come un limite, ma nel mio caso credo sia stato un percorso naturale perché legandomi ad una scuola che ha radici in questa università è stato automatico che il mio percorso fosse qui e che sia stato un percorso ibrido tra cinema e storia. Io mi sono laureata in Scienze della Comunicazione, con una tesi in Storia del Cinema con Pasquale Iaccio. Dopo la laurea ho avuto un’esperienza come giornalista perché comunque il mondo della comunicazione mi affascinava molto. Tutto mi è servito perché anche il lavoro del giornalista ha molto a che fare con una ricerca di tipo storico: confrontarsi con le fonti, interfacciarsi con diversi punti di vista, narrare la realtà delle cose. Ho fatto poi il Dottorato in Storia contemporanea, ma con una ricerca su storia e cinema e dopo ho avuto degli assegni di ricerca alternati tra il settore cinema e il settore storico. Poi, mi sono abilitata in cinema. Molti pensano che io sia una storica che si è “lanciata” nel cinema, ma in realtà io nasco come studiosa di cinema e i miei percorsi hanno sempre proceduto in parallelo. In effetti vengo dal mondo del cinema e della comunicazione con degli innesti, a mio avviso molto utili, di formazione storica per leggere in un certo modo gli audiovisivi. Il mio sforzo è sempre stato quello di utilizzare il cinema e gli audiovisivi come un mezzo per analizzare il contesto.

Nel 2023 ha pubblicato “Schermi nemici. I film di propaganda della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano (1948-1964)” che nell’ultimo anno ha presentato in diverse rassegne ed eventi. Ce ne vuol parlare?

Sì, ho lavorato sui film di propaganda realizzati dai due grandi partiti (DC e PCI) fino alla metà degli anni Sessanta però la produzione è stata più lunga: se sicuramente per il Partito Comunista si è spinta molto oltre, per la Democrazia Cristiana, invece, si è ridotta negli anni. Nel secondo dopoguerra il cinema era un medium centrale, le persone andavano moltissimo al cinema ed esso si configurava come una grande esperienza collettiva ed era un medium capace di incidere negli immaginari della sua epoca. Partiamo da questa centralità del cinema: i partiti che capiscono quanto il cinema potesse essere utile ai fini della propaganda – anche alla luce dell’utilizzo del cinema da parte del fascismo – iniziano a realizzare delle pellicole di propaganda. Si tratta di documentari, film di finzione – io li definisco, in generale, “film di propaganda” perché sono sia fiction che non fiction – e non sono dei prodotti che si vedevano abitualmente nelle sale, ma giravano in dei circuiti alternativi, forse solo qualche film della DC, nei periodi di campagna elettorale, arrivava nelle sale. Ho studiato questi film utilizzando il cinema come fonte storica e utilizzando “la cassetta degli attrezzi dello storico” per leggerli e, in effetti, questi film ci dicono moltissimo su questi due partiti di massa, i principali partiti del Novecento italiano e quindi sulle loro visioni del mondo, sulle loro rappresentazioni.

Anche nel mio lavoro monografico precedente sul cinema e il Mezzogiorno – a partire dagli studi di Pasquale Iaccio, uno degli studiosi più produttivi su questo tema – mi sono concentrata sui prodotti di non fiction (i documentari) tra la metà degli anni Quaranta e gli anni Sessanta che erano prevalentemente dei cortometraggi che si vedevano nelle sale. Ho lavorato proprio sull’immaginario del Mezzogiorno e della grande trasformazione quindi su quella fase di passaggio dal dopoguerra fino al miracolo economico servendomi di queste pellicole che per molto tempo sono state considerate, anche dagli studiosi di cinema, uno scarto, qualcosa di poco interessante perché non erano film di finzione. In realtà, negli ultimi anni si è compresa la necessità di studiare “l’altro cinema” e le produzioni di vario tipo. Anche qui un esempio di come utilizzare il cinema, anche nelle sue produzioni considerate minori, un mezzo per capire come si sono strutturati certi immaginari sul Mezzogiorno, cioè l’idea di un sud arretrato, lento che si è formata a partire da una serie di elementi, tra cui anche il cinema e questi film-documentari.

Nel corso della sua carriera è riuscita a far convergere la storia e il cinema, due temi che, insieme, caratterizzano il suo percorso accademico. Ma qual è la sua “seconda anima”: un interesse, una passione che coltiva al di fuori dell’università?

La mia passione è il cinema, quindi ho avuto la fortuna di trasformare una mia grande passione in lavoro. Una passione che, per la verità, un po’ di anni fa, quando avevo più tempo, coltivavo di più, oggi diventa difficile. Prima avevo anche molto più tempo per leggere libri e riviste di cinema, oggi la maggior parte del tempo che dedico alla lettura è per letture accademiche, che ovviamente riguardano anche il cinema. In generale, rispetto ad un lavoro come questo, che è totalizzante, provo anche nella mia vita a non essere solo lavoro, a non lasciarmi fagocitare totalmente dalla ricerca. Sono una persona che attribuisce molto valore agli affetti e alle relazioni per cui lo sforzo è anche quello di trovare il tempo per alimentare questi affetti.

C’è uno spazio importante nella mia vita che è dedicato al volontariato zoofilo: faccio parte di un’associazione che si occupa di cani e gatti, abbiamo un rifugio e si tratta di un volontariato molto impegnativo fatto anche, alle volte, con fatica. Il volontariato si riconnette con un’idea per me molto preziosa: la necessità per ognuno di noi di fare qualcosa per gli altri, qualunque altro esso sia. Viviamo in un mondo in cui troppo spesso si vive solo per se stessi, uscire al di fuori dei propri orizzonti e capire dove ci sono realtà che hanno bisogno del nostro aiuto e del nostro contributo è fondamentale, non possiamo vivere solo per noi stessi. Sarebbe utile e formativo dedicare un po’ del nostro tempo agli altri per uscire dalla dimensione stretta delle nostre “piccole vite” perché anche le vite più belle, più ambiziose, più ricche se rimangono chiuse su loro stesse diventano piccole.

Mi piace molto viaggiare. Fortunatamente mi capita di viaggiare anche per lavoro. Tanti posti dell’Italia li ho conosciuti andando in giro per convegni, seminari, presentazioni di libri negli ultimi anni, questa è un’altra forma di gratitudine che ho nei confronti di questo lavoro. Queste sono le mie varie anime.

Se dovesse descriversi in tre aggettivi: quali sarebbero?

Sicuramente sono una persona ottimista, pragmatica e molto indipendente e questo può essere anche un limite perché, a volte, può spaventare.

Martina Masullo

Giornalista, social media manager e dottoranda di ricerca in Politica e Comunicazione (Policom) presso l'Università degli Studi di Salerno. Collabora con le cattedre di Sociologia dei processi culturali, Media classici e media digitali e Sociologia dell'immaginario tecnologico. Si occupa di audience studies, innovazione nella digital society, fake news e cancel culture

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