Trentuno anni dopo quegli avvenimenti, sono un tema ancora scottante al centro di una querelle politica:
CAPACI 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci (sul territorio di Isola delle Femmine): muoiono il magistrato antimafia Giovanni Falcone la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta
VIA D’AMELIO a Palermo 19 luglio 1992: persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta
Riprendo il ‘cappello’ pubblicato su “Resistenze quotidiane” per aggiungere, al bellissimo Paolo Borsellino Essendo Stato (2019) di Ruggero Cappuccio un altro testo, Canto per Francesca (2017) di Cetta Brancato, che ne condivide progetto politico e la modalità di comunicazione.
Nulla di più adeguato per parlare di letteratura testimoniale che analizzare due testi, dichiaratamente letterari, dedicati a due vittime simbolo della lotta della magistratura contro le violenze mafiose: Paolo Borsellino e Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone, morta con lui nella strage di Capaci, riportando quindi il termine testimonianza nel suo luogo d’elezione, un’aula di tribunale e il Consiglio Superiore della Magistratura.
La letteratura testimoniale, di auspicata ricezione semi-referenziale, infatti, costituisce un continuum, senza fratture oggettivamente individuabili, che, dopo e al di là della testimonianza ‘tecnica’, si fa articolo giornalistico, letteratura testimoniale, scrittura saggistica, fino a sfociare nella fiction basata su un fatto reale: nel mezzo, un magma di testi su cui lettori e critici esercitano inutilmente le proprie capacità tassonomiche giacché si tratta di una famiglia testuale che oppone, come afferma lo scrittore cubano Víctor Casaus, «resistencia a la clasificación» (Defensa del testimonio, 2010), il che è certo e, direi, intrinseco alla sua natura, giacché nasce sul campo, in momenti di emergenza, ed è la situazione contingente che impone le sue leggi. Accanto a opere facilmente riconoscibili come letteratura testimoniale – un sopravvissuto che narra in prima persona, e in nome di chi non si è salvato, un evento tragico, una strage, un genocidio – troviamo molteplici testi che, in diverse gradazioni, registri e forme, rispondono a quei requisiti ma incastrati in un impianto finzionale che mette in crisi l’orizzonte d’attesa del lettore. Un passo più in là e ci troviamo nel campo della letteratura testimoniale di seconda mano e di evidente costruzione finzionale, di chi raccoglie testimonianze, ricordi e racconti del testimone e li ‘ricrea’ artisticamente, dando loro forma, coerenza e significato più ampio.
Non è possibile, naturalmente, banalizzare le relazioni, interferenze e problematicità del rapporto della testimonianza con la storiografia e la saggistica, sicuramente mutato nei secoli: se è vero che la storiografia e la saggistica hanno avuto sempre una volontà oggettivante e distanziante, diluendo le esperienze individuali in un discorso generalizzante, la testimonianza ha invece un carattere soggettivo tendente ad esprimere le impressioni, le conseguenze, le tracce lasciate nel soggetto. Ma queste testimonianze oggi sono alla base dei processi di recupero e costruzione della memoria la cui centralità nei processi di costruzione storiografica è ormai riconosciuta
D’altra parte, si tratta dolo di ‘gradazione’ del rapporto referenzialità-finzionalità giacché, ci ricorda Giorgio Agamben, la testimonianza totale non esiste, perché il testimone integrale è colui che ha vissuto la esperienza fino alla fine, colui che conosce l’ instante precedente alla morte, colui che conosce la morte, e che pertanto non può testimoniare. Qualcuno lo deve fare al posto suo.
È ciò che fanno Ruggero Cappuccio e Cetta Brancato nei due testi indicati nel titolo… non teatro non romanzo non saggio non cronaca né documento: letteratura testimoniale, un ossimoro denso e accattivante. Altrove la letteratura testimoniale ha antichi e profondi riconoscimenti – Premio Literatura Testimonial di Casa de las Américas di Cuba dal 1970 – ma che qui da noi, malgrado antesignani d’eccellenza – penso a Primo Levi per il versante ‘autoreferenziale’ e a Leonardo Sciascia, ma anche a Roberto Saviano, per il versante ‘giornalistico’ – non è inclusa né nei progetti editoriali né nell’orizzonte d’attesa di critici e lettori.
Testimoniare ‘contro’ qualcosa, dare voce alla subalternità, cercare verità nascoste e divulgarle, lanciare una sfida allo status quo, testimoniare su esperienze limite ma facendone esperienza comune e condivisa è ciò che distingue inequivocabilmente la sfera testimoniale da altre scritture dell’Io, dalla saggistica e dalla generica ‘letteratura impegnata’. I nostri due autori fanno esattamente questo presentando due eventi tragici accomunati nella storiografia e ora in questa ‘letteratura testimoniale’: Ruggero Cappuccio dà voce a Paolo Borsellino nel momento stesso della morte, testimone estremo e integrale, secondo Giorgio Agamben, costruendo un discorso credibilissimo a partire da parole e testimonianze dello stesso Borsellino, corroborate dalla vedova Agnese e dai figli; Cetta Brancato dà voce a Francesca Morvillo, moglie magistrato di Giovanni Falcone morta con lui.
Canto per Francesca è un monologo alternato a una voce narrante, con interventi ‘saggistici’ di Marcella Ferrara, Maria Teresa Ambrosini, Giuseppe Ayala, Amalia Settineri, Alessandra Camassa, che ne sottolineano la portata testimoniale e risaltano le capacità poetiche dell’autrice: non poesia ‘pura’, naturalmente, ma poesia civile come quella che ci aveva coinvolto e commosso negli anni dell’impegno, dal neorealismo alla stagione che ha il suo nucleo nel ’68… Libro voluto e sponsorizzato dalla Sezione distrettuale di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati, per ricordare
“Francesca Morvillo, la moglie, la collega, la compagna che sostenne [Giovanni Falcone] e gli fu vicina, nella riservatezza che sfugge a ogni protagonismo, che scelse di restargli a fianco nei tempi difficili della sua vita professionale e personale e che pagò, essa stessa con la propria vita, tale scelta.
Anche Francesca era un magistrato, un ottimo magistrato, di cui quanti la conobbero ricordano la sensibilità, l’intelligenza e la straordinaria dedizione al lavoro, specialmente alla tutela dei minorenni, ai quali dedicò la parte più significativa della sua professione […] La prima rappresentazione di quest’opera, con un dialogo a due voci, è il fulcro della commemorazione pubblica organizzata nel Palazzo di Giustizia di Palermo nel maggio 2017”.
Ed è stata rappresentata a Salerno, nel luogo più adatto, un albergo sequestrato alla camorra che tentava di rivivere di vita propria, con letture degli attori Margherita Rago e Yari Gugliucci.
Progetto non facile, giacché al discorso sulla giustizia, sui delitti di mafia, si affianca il discorso sommesso ma potente sull’essere donna magistrato in un mondo di uomini, come è stato ricordato in questi ultimi mesi anche dal Presidente Mattarella in occasione dei 60 anni dell’abrogazione dell’articolo 7 della legge n. 1176 del 1919 nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche:
“Di lei, in questi anni, è rimasto solo il nome, / distrattamente pronunciato qua e là / e, subito dopo scordato, / ad apertura o chiusura di ben più ampi sermoni” recita Marcella Ferrara, giudice penale a Palermo, invitando la collega e amica Cetta Brancato a scrivere su di lei, “come atto di omaggio e di pietà di una donna a un’altra donna./ Perché non sia più dimenticata dagli uomini, persino da quelli che si dicono giusti.”
Mentre Francesca ricorda la sua vita con Giovanni, e i lunghi giorni all’Asinara con la famiglia Borsellino, la voce narrante contestualizza e fa da contraltare ai ricordi intimi della donna: “Fuori c’era Palermo, una volta […] Palermo, sovrana e operaia, rimane capitale di vezzi e di infamia. Donna, capace di oltraggi e di nobiltà, con pari furore prevarica infime case e dimore patrizie”.
Difficile raccontare, riassumere: la voce di Francesca parla di sé donna, magistrato, moglie, vittima:
“Tutto è così vivo in quest’isola, così sublime e infimo, da toccare la morte. / Ma noi eravamo vivi, con la semplice urgenza della vita. / Il futuro era incerto. Era questa la nostra condanna: lasciare sospeso, come infelice promessa, un atto di eroismo non voluto. / Fra l’essere e non essere c’era l’amore. / E la terra di Sicilia nel mio destino di donna. […] Eravamo già frutti perfetti da consegnare alla storia”.
Poche parole per il suo lavoro con e per i minori (“Difendiamo per istinto, curiamo per coscienza, ma diventiamo donne con l’intelletto”) perché il protagonista è sempre Giovanni, anche nel momento dello scoppio, che Francesca descrive senza rabbia, in quell’attimo sospeso tra vita e morte: “Forse, chi non ha mai pensato alla morte diventa subito immortale. Ma chi l’ha masticata, vivendo, la riconosce. Vi entra e vi sosta”. E la racconta…