Sebbene fosse fermamente schierato dalla parte del nuovo – e molto più aperto del suo amico Einstein ai principi rivoluzionari sostenuti da Bohr, Heisenberg, Born e Dirac –, Ehrenfest non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che fosse stato oltrepassato un confine fondamentale, che un demone, o forse un genio, si fosse annidato nell’anima della fisica, e che né la sua generazione né quelle successive sarebbero mai più riuscite a rimetterlo nella lampada. Se si doveva dar credito alle nuove regole che governano lo spazio interno all’atomo, tutt’a un tratto il mondo intero non era più solido e reale come in passato. Benjamin Labatut, Maniac, Adelphi, Pag. 361.
Il libro apre in una maniera spietata, da lasciare senza fiato. Quattro righe e un po’. Tracciano un omicidio e un suicidio. La mattina del 25 settembre 1933 il fisico austriaco Paul Ehrenfest entra nell’istituto pedagogico per bambini infermi del professor Jan Waterinik, ad Amsterdam, dove era ricoverato il figlio quindicenne Vasilij e gli spara un colpo in testa, poi gira la pistola contro se stesso. Dal quinto rigo in poi si fa fatica a fermarsi. Il libro è subito intrigante, come d’altra parte lo erano stati i due precedenti: “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” e “La pietra della follia”, ancora pubblicati da Adelphi nel 2021.
Perché accade questo con i libri di Labatut? Cioè perché non si riesce a smettere di leggerli? Perché si è presi da un vortice inarrestabile di curiosità e inquietudine che, riconosciamo da subito, nulla hanno a che fare con la letteratura, sebbene si tratti daccapo di letteratura e della sua intrinseca capacità di confondere la realtà, la storia o la storiografia con la finzione, o con l’invenzione di un autore o, soprattutto, di un lettore?
Provo qualche risposta. Innanzitutto, Labatut gioca con il sempre presente assillo, allarme, ossessione della possibilità da parte di qualcuno o qualcosa di soggiogare il mondo. E come, puntualmente, questa eventualità fallisca. Ne “La pietra della follia”, Labatut cita Foucault a proposito della possibilità, come in un dipinto di Bosch, di estirpare la follia e rendere il mondo più libero a una ragione che sembra più che ragionare (riflettere, interrogarsi, svelarsi ) voglia ordinare se stessa attraverso la prevaricazione dei numeri e del calcolo; una ragione, cioè, capace di definire in maniera inequivocabile la realtà; di predire e di prevedere come gli antichi oracoli, il futuro, sogno atavico dell’uomo e pura insania. Tutto ciò in maniera più che ortodossa, e senza nessuna possibilità di equivoci o d’interpretazione. Foucault è netto: Anche solo provarci è di per sé un delirio, un vaneggiamento della ragione che pensa di poter oltrepassare i propri limiti, e un delirio della medicina e della scienza che pensano di poter andare oltre il proprio ambito, perché riuscirci significherebbe eliminare una parte di noi stessi. Ragione e follia. Ordine e disordine. Fisica classica e fisica quantistica. Einstein e Heisenberg. Cervello e mente. Uno e molteplice. Ente ed essere. In fondo, la storia è sempre la stessa. E, almeno, da Parmenide a oggi, il mondo (l’Occidente) non sembra abbia fatto molti progressi e continua a muoversi ancora tra e con queste opposizioni in una lotta senza quartiere, dove a soccombere, sembra essere quella parte (opposta?) che la ragione stessa non riesce a far passare come, se non fondante, almeno formante di quell’essere che, forse, senza nessun senso, visto gli attuali sviluppi dell’intelligenza artificiale e delle neuroscienze, si continua a chiamare Uomo.
Così da Paul Ehrenfest a John von Neumann, il passo è breve. Alla fine della seconda guerra mondiale il “marziano” ungherese Jancsi von Neumann concepisce il Maniac, un potente calcolatore, sulla scia della macchina di Alan Turing, che doveva afferrare la scienza alla gola a causa della potenza illimitata di calcolo per cui era stata progettata. La fisica, in breve, cede il passo alla matematica e alla sua inesorabile logica ordinatrice e cinica. Sono sogni grandiosi quelli di von Neumann di dominare il mondo con l’esattezza del calcolo; una sicurezza folle, sembra suggerirci Labatut, a dimostrazione di come il confine tra il genio e la pazzia sia sempre molto arduo da definire. Labatut ci porta, allora, attraverso un coro di voci, – nel caso di von Neumann, si tratta di “testimonianze” di amici, scienziati, mogli, figlia, testimoni vari – in cui è difficile discernere l’invenzione letteraria con la realtà storica degli eventi che hanno sballato il mondo: il nazismo, la costruzione della bomba atomica, le scoperte della fisica, della matematica, della termodinamica, così come di altre scienze che dall’inizio del secolo scorso si susseguivano a ritmi vertiginosi. Chissà, magari è per questo, di là dei motivi filosofici o scientifici, che la lettura prosegue come se si fosse in preda a una forma d’ipnosi o impugnati da un demone che non ti lascia smettere di andare avanti. Una sensazione strana, che non può che essere la straordinaria forza di una letteratura che s’immedesima negli eventi con una maestria tale da rasentare ogni progetto folle o geniale che sia stato rappresentato nel libro. Una letteratura che vuole capire. Essere partecipe. E un autore che sa raccontare. Labatut è scrittore a tutti gli effetti. Il suo è un linguaggio che insidia la mente. Non un linguaggio ricercato ma continue imboscate che innescano una curiosità anche morbosa, trappole verso quelle cose che mai auspicavamo di conoscere e che Labatut, se non altro, ci fa immaginare come vere.
Ci scopriamo così a Los Alamos, nel quartiere generale di Oppenheimer, nella città che è stata la più segreta del mondo, dove sono stati riuniti gli scienziati più geniali del mondo per portare a termine quello che si credeva un compito grandioso. Siamo nelle stanze di Princeton, dove sono state avanzate le basi delle tecnologie digitali che oggi conformano la nostra vita. Siamo, infine, al dominio dell’Intelligenza artificiale. Conosciamo Lee Sedol, il più forte giocatore di Go che osa sfidare, perdendo, Alpha go, una macchina dalla potenza di calcolo sovrumana messa a punto da Hassabis, un altro dei tanti geni o folli che popolano il libro. Entriamo nella vita dei geni, eppure non li invidiamo. Probabilmente, addirittura, ci fanno pena. Le domande a questo punto sarebbero tantissime, ma non è questo il luogo. Una per tutte, però, è d’obbligo. Perché, l’umanità si affida a queste eccezioni della specie? Eugene Wigner, un altro marziano ungherese, premio Nobel per la fisica nel 1963 ci aveva ammonito che per il progresso non c’è cura possibile. Certo, la scienza non deve fermarsi… ma ne siamo ancora sicuri? Non basta la letteratura a inquietarci? Geni e scopritori. Qual è il limite che li unisce quando la scrittura si spegne? Maniac cessa di esistere nel 1958. Von Neumann muore di cancro l’anno prima, sorvegliato a vista per timore che potesse rivelare, non volendo, qualche segreto militare. Oggi, più di mezzo secolo dopo si parla di bombe atomiche “avanzate”. E si minaccia di usarle. Sembra che una guerra sia sempre in atto. Come diceva Mallarmé, un libro è sempre un rimando ad altri libri.
[Benjamin Labatut, Maniac, Adelphi, pag. 361]