Barbieri, sensibilità dello sguardo e sortilegio del linguaggio

La raccolta "Rosso" è vincitrice per la sezione Poesia inedita alla trentasettesima edizione del Premio Lorenzo Montano

Tempo di lettura 4 minuti

Ammi majus

Che ci sono tre mondi nel creato: la tronfia raggiera
dell’essere, la nuvola del senso, le rassicurazioni
del vedere, per quanto fuori fuoco – tra le cose fili
di ragno a collegarle, impalcature inutili, ma belle,

sopra le cose insetti, scarabeidi oscuri, duri e piccoli,
affamati di zuccheri e di sole, la raggiera esplode
ostinata, stabile, sostenendo tutto, sulla nuvola
gli dei governano, pieni di luce, garantendo tutto,

che ci sono tre mondi dentro un fiore, un’illusione ottica,
una deriva, la ruggine un cancro nel ferro del mondo

L’Ammi majus (Visnaga maggiore) è comunemente chiamato fiore del vescovo, erba del falso vescovo, fiore del pizzo. È un genere di piante della famiglia Ombrellifere con ombrelle grandi a brattee pennatosette. È, nondimeno, anche il titolo del testo sopra citato in Daniele Barbieri, Rosso, Anterem Edizioni, pag. 69. Raccolta vincitrice per la sezione Poesia inedita del Premio Lorenzo Montano nella sua trentasettesima edizione.

Il libro è diviso in quattro parti: Erbario vivido (favole nello sguardo), Rosso (guardando la favola), Oltremai (schegge di favole), Robert Capa (un ultimo sguardo). Il volume è arricchito, ulteriormente, da una breve nota dell’autore, e da una preziosa riflessione critica di Giorgio Bonacini che nella sua intensa postfazione rimarca una matrice fiabesca dei testi nella loro eccezionalità poetica e metamorfica. Tipico del racconto fiabesco è appunto la capacità della scrittura di elevarsi a magia, in altre parole di erigere una presentazione del reale che piuttosto essere riferita a una semplice figurazione ne svia il senso, un significato già per altro traslato in rappresentazione fantastica, sognata, immaginata. Ne deriva pertanto una significazione di una consistenza e fisicità tale da far apparire la scrittura fragile, leggera, evanescente. In realtà Barbieri, ci sta portando sull’orlo di quell’abisso della parola che contiene nel suo interno incandescente, infiammato (rosso) quell’essere che si apre dischiudendosi tra le corolle dei suoi amati fiori, – tutta la prima parte del libro, Erbario vivido, ha nei titoli dei testi il nome scientifico della pianta ispiratrice dello scritto, – nelle pupille dello sguardo, nell’esserci della scrittura. Qui più che il dire, è bene rimarcarlo subito, è in gioco il guardare. È la magia della forma a dare l’avvio. Esorto, pertanto, a cercare l’immagine del fiore prima di iniziare la lettura delle poesie, sarà così anche un’esperienza visiva a unirsi alla fiammeggiante bellezza dei testi. O almeno, prima di una seconda lettura è bene tener presente la pianta, i suoi fiori, le sue policromie o suggestioni. La natura, quindi, per Barbieri, specialmente per quanto riguarda Erbario vivido, è artefice indiretto e originario di un sentire appariscente ma mendace. Appariscente è insieme maestosità e apparire. Il che è tutto dire. La magnificenza dell’apparire non è già di per sé quella magia che lascia che le cose si rivelino? Quelle cose, oltretutto, che mai credevamo potessero esistere. Quelle cose che sono desideri, fantasie, stelle imbizzarrite, insetti che fremono, foglie scarmigliate, Giuda impiccato alla sua corda; e ancora, in Oltremai, i giganti pelosi, l’uomo-lince, la donna-capra, il vermedrago, il cavallo a due corna cavalcato dall’angelo inverso. Ecco, chi ci dà la verità della loro consistenza se non il nostro “percepire e guardare”? Se non il prodigio del linguaggio o la magia di una fonte che è paesaggio nell’accezione ampia di creato e creazione, habitat o universo? Sensibilità dello sguardo e sortilegio del linguaggio. Favola. La seconda parte, Rosso, non ha bisogno di esplicitazioni: il lupo, il colore, il bosco scuro, la grande sete del bene e del male, l’inganno e l’efferatezza.

“… cinguetteranno le arpie verso l’alba, sono io che resto/preso nel gioco dell’orrore e dell’incerta meraviglia”. Siamo già nelle schegge di Oltremai. L’autore ci informa di un lavoro ispirato alle immagini di Lorenzo Mattotti che ha visto nel suo studio mentre ancora ci lavorava, e poi riviste in seguito in una mostra e nel bel libro omonimo pubblicato da Logos. Qui, ci suggerisce Barbieri, siamo molto più vicini all’ekfrasis che in Erbario vivido. Come a rivelare la necessità di un vedere con l’opportunità di un guardare che è non solo vigile ma rigenerante. Come se la creazione fosse di per sé mancante e avesse la fondamentale e imprescindibile necessità di uno sguardo, di un utilizzatore, di un creatore o di un nuovo minuzioso alito a risvegliarne il senso, il significato, il valore, la bellezza, la grazia, l’armonia, la riflessione, quindi il pensiero, la libertà. Non è ciò che fa l’arte quando disegna le sue molteplici fortezze circolari, i suoi enormi pavimenti di mare o i suoi odori di pistilli fluorescenti? O quando disegna la sua scrittura con la veggenza della parola poetica e ne fa un’ambivalenza intima, altra, indefinita, indicibile? Magia delle forme e creazione, e felicità. Barbieri ha necessità di un testo altro che è sempre rimando ad altri testi. Un libro non è mai un solo libro ma tanti libri nel gioco magico della scrittura e dell’ideazione. Una lettura incantata e incantevole questo libro di Barbieri. Fiabesco ma inquieto come pochi. La felicità, dicono i saggi, ha una sua natura paradossale: significa conoscere ed evocare. Significa possedere la lingua segreta della magia che chiama l’inespresso. Poesia, allora, è magia che chiama la felicità. Solo i maghi, gli incantatori e i poeti sanno. Il libro finisce con un ultimo sguardo. Il libro o il testo è ri-strutturato, sfocato, chiuso su una fotografia di Robert Capa scattata nel giugno del quarantaquattro su una spiaggia dell’Atlantico. Un tracollo finale di quel corpo reale che è l’esistenza nella sua più crudele delle rappresentazioni. Anche però un rimando, mio e del tutto personale, a un’asserzione di Agamben sulla fotografia che riporto volentieri per l’intensità e per il suo piglio universale. Oltre, chiaramente, a prestarsi bene come rifinitura di un libro bellissimo e di cui si auspica tanta fortuna. “Di tutto questo la fotografia esige che ci si ricordi, di tutti questi nomi perduti le foto testimoniano, simili al libro della vita che il nuovo angelo apocalittico – l’angelo della fotografia – tiene tra le mani alla fine dei giorni, cioè ogni giorno.”

[Daniele Barbieri, Rosso, Anterem Edizioni, pag. 69]

 

Oltre a scrivere poesie, Daniele Barbieri, di formazione semiologo, insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha pubblicato numerosi volumi di carattere critico, in alcuni dei quali si parla anche di poesie. Sue opinioni sul blog www.guardareleggere.net. È vincitore del Premio Lorenzo Montano, Trentasettesima edizione, sezione “Raccolta Inedita”.

 

 

 

 

 

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