La decisione di organizzare nel prossimo autunno un convegno sull’odierna impasse del campo psichiatrico nasce sulla scorta di una profonda riflessione avviata in collaborazione col Dipartimento di Filosofia di UniSa e con l’I.I.S.F. di Napoli. Si prova, in tal modo, a riaprire “la questione psichiatrica”, che già Basaglia aveva posto in stato di auto-interrogazione cinquant’anni fa: la risultante di quel movimento di critica alle “istituzioni psichiatriche” come storicamente costituite, assunse una forte connotazione politica all’interno di un contesto culturale orientato al cambiamento. La legge 180 ne fu la più significativa ricaduta in termini di progresso civile e scientifico la cui portata e implicazioni sociali, indussero Norberto Bobbio a qualificarla come “l’unica vera riforma di cui si era dotata l’Italia dal dopoguerra”…
Dopo quel momento aurorale è di una involuzione in forma di restaurazione che registriamo lo stato odierno, sia nella prassi che nelle ipostasi che ne organizzano la bussola teorica.
- Per poter cogliere e affrontare la crisi dell’attuale assetto del campo psichiatrico, bisogna coglierne gli aspetti strutturali: essi intrecciano il piano della prassi e quello della sottostante povertà epistemologica stilizzate nelle forme dell’odierno tempo storico, della sua caratura culturale secondo la sua intrinseca valenza politica.
È di una presunta disciplina che si vuole fideisticamente “medica” tout court che si tratta, la cui consistenza teorica e la sua legittimazione sociale derivano dalla costruzione di un ibrido concettuale quale è il neologismo “biopsicosociale”, la cui miope e ideologica assolutizzazione bipartisan definisce il modo di declinarsi della sua crisi attraverso un occulto e specifico movimento di collisione prima e di collusione poi con i suoi stessi limiti interni. - Tale dinamica ha assunto la forma e le implicazioni di una Nemesi storica, costituendo il punto di massima involuzione cui è giunto l’intero campo psichiatrico, accademico e non, accomunati dall’assenza di una riflessione critica all’altezza delle sue aporie. Di fatto si è giunti a tale stato dopo aver depauperato gli anni dei grandi dibattiti del dopoguerra e quelli più recenti della cosiddetta ” fase emancipativa-basagliana”: fonti di grandi controversie che hanno agitato la psichiatria del XIX secolo e lasciata quella del XXI in una condizione di impotenza e di stasi ristagnante, esiti delle sue irrisolte aporie a loro volta aggravate da una colonizzazione culturale la cui espressione sociale è un complessivo appiattimento della prassi cui si accompagna un generale conformismo di pensiero.
- A quella fase aurorale, la più luminosa di questa disciplina, è succeduto il ritorno di un pensiero sommario che ha tratto pretesto dalle scoperte della chemioterapia per dispensare intere generazioni di psichiatri dal dovere di pensare. E di curare. Salvo il ricorso all’automatismo del “trattare” chimicamente orientato.
- Sicché, nella sua evidente crisi, il campo psichiatrico configurerebbe una condizione da “fase post-paradigmatica”, se solo fossero presi sul serio i costituenti della sua sostanza problematica, quale ad esempio le impasse della stessa costituzione identitaria dell’operatore psichiatrico: oggi, chi è e cosa fa uno psichiatra?… in quale rapporto costui è con quel “fattore antropologico” cui è chiamato a confrontarsi e rispondere quotidianamente; ovvero: che ne è di quella “follia privata” consegnata ormai alla dispersione sociale (che non contempla più il ” fare comunità”) e alla sola sovradeterminazione chimica?
- E dunque: quale perversa persistenza organizza la quotidiana messinscena clinica cui ha condotto una certa standardizzazione che è concettuale e linguistica prima e prassica poi?… Lo smarrimento dell’ascolto, del comprendere, della ricerca di senso e del curare hanno lasciato il posto a una immaginaria quanto surreale “psichiatria di precisione” (!!) la cui prassi ha prodotto una sorta di genocidio del pensare cui si è prestata la stragrande maggioranza della psichiatria contemporanea nel momento in cui ha voluto fare a meno del coraggio di “pensare la psicopatologia” per chiudersi in una pletora di piccoli narcisismi che, nella loro autoreferenzialità, vanno a costituire una sorta di anomalia operativa sostenuta dalla “filosofia” di cui si è dotata che, come la cattiva filosofia, lascia le cose così come le ha trovate. In tali contesti, portatori di un marchio e di un logos che dovrebbero significare la loro scientificità, predominano locuzioni linguistiche che hanno la stessa consistenza semantica del polistirolo (anche perché desunte e poi assimilate da ambiti non solo eterogenei, quanto piuttosto “orientati” dal e all’uso dall’economico), quali “core activities”, oppure ” contest activities”, immancabilmente coniugati con gli “stakeholder” di turno…
- Tutto ciò ha preso il posto di pensieri e testi che contenevano sufficiente tritolo intellettuale da bastare per un’intera epoca, sostituiti invece da “specialismi” incapaci di dialogare e che, soprattutto, impediscono ai loro portatori ogni comprensione delle cause e degli effetti dell’odierna involuzione di un campo psichiatrico perlomeno pluriproblematico.
- Si pone quindi la necessità, che solo in parte ha una radice oggettiva, trattandosi innanzitutto di “coscienza critica”, di rimettere in discussione le categorie di base che strutturano la natura e la persistenza del paradigma biomedico in psichiatria. Facendo preliminarmente a meno del doppio ricorso al lamento istituzionale e alla sua gemella “retorica della salute mentale”: un ossimoro tanto ambiguo quanto poco perspicuo. Una riattivazione del pensiero critico dunque, piuttosto che apostolici ecumenismi racchiusi nella teca del bio-psicosociale, tale da cessare, a sua volta, di figurare “solo” come premessa filosofica per riguadagnare tutta la sua necessaria attualità per uscire dal vecchio inserito nel nuovo.