Aurelia, la parola d’inizio

Se il linguaggio della poesia deve essere oscuro, quello della raccolta poetica di Giampaolo De Pietro è una stratificazione notturna di moti ondulatori e sussultori

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Il clima, le spalle degli alberi, gli alvei dei linguaggi – le esperienze dove se ci fossero altri pianeti – per gli elementi eletti. La vista, organizzata per paesaggi. Olfatto, di tatto, ascolto per udito. Un pianeta taciturno, visto sentito vissuto non detto né scritto ­– nonostante l’infinità di descrizioni. Dio guarda gli alberi da sopra e sotto, noi chi siamo, siamo noi. Giampaolo De Pietro, Aurelia, Il Ponte del Sale, pag. 145.

Se il linguaggio della poesia deve essere oscuro quello di Aurelia, raccolta poetica di Giampaolo De Pietro, è una stratificazione notturna di moti ondulatori e sussultori. Severamente, ciò che scuote! Coro appassionato dove si slegano e si slogano parole libere di credere o di cedere il mondo. Aurelia chiede tempo al tempo, spazio allo spazio. E senza troppo industriarsi, lei pensa! Testa di animale arboreo o volatile. Delicatezza o profeta. Nonché mani accorate, fuori, in assenza di stagioni, di imperi, di piedi liberi a far valere i passi dentro una pausa di Dio. Aurelia un giorno ride e un giorno cambia. Questo momento è l’ora della preghiera. Si cambiano gli ingredienti e tutto respira. Il mondo si fa universo, chimera, disegno imbrigliato nelle maglie di alberi maestri, centenari, non più saggi ma forme metriche libere come gli abissi. “Apri. A terra, soltanto a notte fonda, arrivano gli uccelli”. Aurelia inesauribile risorsa! Sotto, sopra, attorno ai verbi e agli aggettivi, la pagina fa di suo figlio, padre, madre, il filosofo. E Aurelia è in linea con se stessa o se stesso. È fine (sottile), meta fino al confine, al rimbalzo della prima volta, non più celeste ma gratitudine. Non origine ma corsiva condizione umana. Essere, ipotetica scala, vetrina di libri, mistero. “Ogni tanto una spina al piede”, un paesaggio, un mese che scade, una dismisura, uno schianto. “Se una lingua non è e non sta nel luogo in cui vive, cosa le succede?” Aurelia si nasconde tra altri libri, ma il recensore disattento la scova. È il ritmo delle cose avverse, di chi ha inventato i verbi, la memoria e la nostalgia. Aurelia lo apprese tardi, come tutte le cose coniugabili e improprie. Come tutte le cose che non hanno una teoria. Credere, fare, spartire, questo è il capitolo da albeggiare, spostare, irretire continuamente. Aurelia lo sa e tace! Oppure, scrive. Oppure si scioglie. Che significa realtà!

Aurelia è un’allusione, una disposizione felice, una casa con le porte spalancate e le mucche al pascolo. Del resto, ogni parola è presente, impenetrabile e viva, una verità e uno sputo amaro. Non fare mestiere del linguaggio è un’arte più di ogni metodo. Un’arte nobile. Che cosa vuoi che si domandi ad Aurelia? Chi sei? Numi tutelari sono Rilke, Manganelli e Teresa d’Avila, scrive Pina Napolitano, la brillante prefatrice del libro. E, tuttavia, altri pregi poetici emergono e sfumano. Restano! Di ciò che è ampio e introverso meglio tacere o giocarci all’aperto. Aurelia è figura divina, policroma e accertata garanzia di comunità, di popolo, di degradato interesse privato. Una figura inevitabile, una sorta di passione. Di discorso commemorativo. Di geologia. C’è sempre una frase finale per un buon libro, un bel disegno, come quello che accompagna il libro e lo sintetizza, l’autore è Francesco Balsamo ma Aurelia merita il silenzio. È tempo che si annotino i suoni, si coltivino le radici, il chi è. Per il resto, la scrittura è questo balzo, questa mezz’ora piena di guizzi e lampi e intrepidi voli. Aurelia è pianeta taciturno ma opposto. Una periferia, nonostante tutto. Un ebbro stordimento. Il più possibile una parola d’inizio. Aurelia ha un occhio numeroso. Uno sguardo sommario. Soprattutto, una latitudine.

Giampaolo De Pietro, Aurelia, Il Ponte del Sale, pag. 145

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