Antonella Albero era una brillante psichiatra, che seguì gli insegnamenti di Franco Basaglia e della Scuola di Trieste, sfociati nella rivoluzione dell’assistenza psichiatrica, recepita dalla legge 180, quella che finalmente chiuse i manicomi. Numerosi i suoi incarichi nella Sanità pubblica:gli ultimi, nel 2003, come Direttrice dell’Unità di salute mentale “A” (Oliveto Citra-Buccino-Contuirsi) e, successivamente, come Direttrice dell’UOSM di Battipaglia-Pontecagnano. Antonella amava il mare, i viaggi, la buona cucina, l’arte, le piante, la natura, i suoi cani, i gatti. Purtroppo, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti – era maggio 2019 – scoprì di essere stata colpita dallo stesso tumore che aveva spento Franco Basaglia, il suo punto di riferimento costante. Il male le provocò un’afasia che la convinse a dedicarsi negli ultimi anni, fino alla sua recente scomparsa, alla pittura, riprendendo così una sua passione giovanile. Con le opere che riproduciamo e lo scritto di Salvatore Marrazzo che le illustra intendiamo ricordare la vena artistica di Antonella, nella quale ritroviamo tutta intera la sensibilità e la passione civile che ne caratterizzarono la sua vita di professionista e di donna, sempre schierata nella difesa dei diritti individuali e sociali.
Un’opera d’arte è bella e gloriosa quando, di essa, altre anime possono servirsi per conoscersi o riconoscersi, per riunirsi o placarsi, per superare la propria contraddizione con sé, cioè il proprio dolore. Questo incipit di Andrea Emo, pensatore solitario e sempre in dialogo con il tempo, è quanto di più sostanziale e incisivo per presentare le opere di Antonella Albero. Eppure, l’arte non è ciò che si presenta da sé per sua natura? Allora, che cosa significa questa consuetudine, questa tautologia di presentare ciò che è già presente? Ciò che si dà nella sua apparizione come evidente ed esistente? Appunto, bello e glorioso. Semplicemente, qui emerge un nominare come il ripresentarsi di ciò che essenzialmente è. Che cosa è questo essenzialmente è se non la magia dell’arte. O dell’immagine. La sua meravigliosa fedeltà e assoluta infedeltà. Ciò che appare non è sempre un fantasma, una visione, un desiderio, una liberazione dal reale, una negazione di ciò che deve essere negato affinché una visione prenda corpo e mistero? Diventi ciò che è. Ovvero enigma. Mistero della vita e definizione di ciò che diviene sempre presenza e assenza. L’arte sembra insegnarci che niente muore. E il suo sogno è di piantare, di lasciarci l’imperituro, il vivo, il sempre essente, il reperibile. L’incenso e l’anima. Non un fatto tecnico ma una dimensione etica.
Qui, nel vedere queste opere di Antonella, si ascoltano, innanzitutto degli infrasuoni che somigliano tanto a un’astrazione pura, a un eterno che si lega a una visione edenica, fantasiosa, mitica. Sono una favola di segni semplici che toccano le parti più riposte del nostro essere fugace e ci insegnano il sogno. Ci raccontano del tempo illusorio, chimerico, mistificatorio. Acrilici, pastelli, oli, tutta l’opera di Antonella diventa man mano corpo, bellezza.
Si passa, cioè, da un’esperienza sensoriale tattica (per Aristotele emotività prima) a un volume visivo, dove i contorni delle forme perimetrano il colore come a volerlo trattenere e giustificare in un ritmo sacro offerto all’oblio. O al destino. Come se la conoscenza, di là dai segni puri o ingenui, fosse una piantumazione continua, una rifioritura perenne, come se la coscienza della morte fosse un sapere contenuto nel seme di una modulazione tonale o di una logica necessaria, inconoscibile quanto originaria. Si crea, infine, un mondo vivente, fatto di ragni, cervi, uccelli dal piumaggio iridescente, felini maculati, cavalli impossibili e tanti alberi e fiori dai colori inauditi. Fiumi sospesi e danze. Vortici di gioia e tante ali simili a foglie. Forse l’arte è la vita stessa. La libertà. La memoria di noi stessi. Il tempo nella sua declinazione di ciò che accoglie. Creare è conoscere. Perché di tutte le cose noi possiamo conoscerne una parte. La forza di Antonella, delle sue opere, è Gloria. Per noi comprensibile se comprendiamo che questa coscienza dell’arte come della vita sono i suoi abissi, i suoi disvelamenti.