Al salone del libro di Torino 2023, attacco frontale ai morti che hanno fatto la storia della letteratura.
Susanna Tamaro imbastisce un j’accuse contro la buonanima di Giovanni Verga (una volta tanto, Gozzano e Manzoni sono stati risparmiati) sull’anacronismo dei programmi scolastici così poveri di contemporaneità e incapaci di coinvolgere il cuore dei nostri studenti.
Notizia rimbalzata ovunque perché le zuffe tra vivi e morti sono sempre letteratura nella letteratura peraltro agevolata dalla mancanza di diritto di replica e dal gustoso retropensiero che maligna sulle segrete velleità dell’autrice di finire in un’antologia scolastica.
Diciamo pure che la critica- sempre feconda- potrebbe cogliere nel segno sebbene la questione, per come è posta, sconterebbe il paradosso secondo cui ci sono autori di produzioni letterarie ben più antiche di Malpelo che costituiscono archetipi impareggiabili per l’educazione sentimentale e non dei nostri figli.
Se forse Tamaro intendeva lanciare una stoccata ai programmi scolastici e agli ibridati sistemi di insegnamento (schema anglosassone e italica burocrazia) di quello che oggi si chiama MIM (Ministero-istruzione-merito, il cui logo è stato sottoposto recentemente ad una operazione di maquillage in linea con il terzo scudetto del Napoli) ha provocato sussulti scomposti.
Il problema credo che non sia tanto e solo nel “programma” ma nel metodo (un altro morto, francese, ha scritto molto sul metodo e un campano ostinato e brillante gli ha fatto le bucce, mirabilmente ma ancor oggi poco compreso).
Mi porrei più il problema dei maestri e del difficile mestiere di insegnare. Ovviamente, spostando l’oggetto da Verga all’insegnamento, so bene di muovermi in un campo minato e sindacalizzato.
Esistono (ancora) i maestri? Maestro si nasce o si diventa? E sopratutto, scomodando l’etimo e forzando un po’ la mano la Lezione del maestro (lectio) scaturisce dal lego (leggere a voce alta) o lego (raccogliere, collezionare)?
“Il maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà” canterebbe un ruvido Paolo Conte su note dal respiro verdiano e ponendo l’attenzione su coloro che – al netto del programma scolastico – hanno la capacità di parlare al cuore dei giovinetti anestetizzati dagli influencer e dagli strumenti tecnologici, usando un linguaggio così immediato da restare nel loro cuore, nella memoria più profonda per sempre.
Un po’ di tempo fa, un antipatico quanto illuminante Gustavo Zagrebelsky scrisse un libretto sui maestri, un testo difficilmente riducibile qui a pochi concetti.
Il maestro (anche quello cattivo) è colui che allena il pensiero critico accendendo la fiamma della curiosità troppo spesso ridotta al lumicino nella più verde età che dovrebbe essere insaziabile per via della fisiologica inesperienza.
E di fronte a questo obbiettivo, con quel poco di impegno richiesto per ogni professione, anche artigianale, pure il “vecchio” Giovanni Verga potrebbe trovare un adeguato spazio esegetico nella (e per la) contemporaneità.
La riduzione di ogni approccio al mestiere futuro, alla produttività spinta, che elimini perdite di tempo anche in rapporto alle reazioni emotive, migliori perchè fulminee e brucianti, abbandonando il valore della sedimentazione necessaria ad ogni forma di conoscenza è l’elevato costo dei nostri tempi: tutto e subito, acciuffare la vita per i piedi, con una immediatezza non risolutiva e che risponde alle necessità contingenti, anziché imparare a fare di un lento studio e del pensiero il vero capitale.
Sostanzialmente si assumono un teorema e un assioma: che il muscolo cardiaco e l’emotività hanno una primazia sull’intelletto e lo studio inteso come curiosa ricerca e, conseguentemente, coloro che quell’intelletto adoperano sono dei “pensatori” guardati con diffidenza, se non con una punta di disprezzo.
Diciamocela quant’è: non abbia colpa Verga nelle scuole, ma la scarsità dei maestri e quel comodo accomodarsi nell’ortodossia di pensiero, nella lezione che è lettura senza prospettiva, senza la spinta di volersi avventurare nei sentieri meno battuti.
“Farsi maestri” dice un adagio popolare che giustamente- come regola sociale- rivendica la necessità di porre il limite alla autoreferenzialità. Oltre questo senso, farsi maestri è un invito, anche per chi non insegna per lavoro ad essere maestro per scelta, a seminare una democrazia critica, che riconosca limiti e corregga errori.