Ridurre, riciclare e riutilizzare. Unendo queste tre azioni diminuiscono gli sprechi e si promuove la sostenibilità.
Siamo bombardati da una quantità di informazioni più o meno attendibili, più o meno vere, ma non sufficienti ad allargare la nostra conoscenza in profondità. In genere ci arrivano questi segnali, noi ne prendiamo atto stupiti, alcune volte addolorati però non riusciamo poi a crearci delle idee precise.
Idee ci sono in qualche modo trasmesse dai mass media (insieme dei mezzi e tecniche per diffondere e ricevere messaggi di diverso valore); in qualche modo ognuno di noi è praticamente schiavo di queste cose che ci arrivano per cui questa quantità di cose che si sanno non corrisponde a qualcosa che si sa veramente. Nella fattispecie parlo della presa di coscienza dell’economia circolare. La coscienza significa avere dei punti di riferimento precisi magari anche pochi però veri. Mi sembra che oggi il discorso sia molto precario , cioè che ognuno sappia tante cose ma in realtà sappia ben poco di ciò di cui parla.
Negli anni ‘50, la popolazione del nostro Paese spendeva il 60-70 % del proprio reddito per alimentarsi, o meglio, per nutrirsi, (i morsi della fame erano ancora un ricordo vicino e le poche risorse della famiglia erano destinate all’appagamento del bisogno primario). Nel 1990 le statistiche ufficiali riportano una percentuale di spesa per alimenti attorno al 20% del reddito. La maggior parte degli economisti sostiene che quando una comunità spende meno del 30% del proprio reddito in alimentazione è da considerarsi ricca (mediamente).
Nel corso di questi ultimi decenni, sempre nel nostro Paese, abbiamo assistito ad una corsa alimentare rivolta in maniera significativa ai consumi di tipo “proteico”, mentre negli ultimi dieci anni si è notata la riscoperta dei consumi vegetali e pertanto un’esaltazione (in alcuni casi eccessiva) del ruolo delle vitamine, dei sali minerali e degli acidi organici. Passando a una fase di sazietà, da un momento di bisogno ad un momento di appagamento, il consumatore italiano, ma anche quello europeo e comunque del mondo occidentale, è passato inevitabilmente dalla fase della ricerca della quantità alla scoperta ed alla pretesa della qualità e pertanto si sono venuti a modificare anche alcuni parametri che distinguono le produzioni agroalimentari.
La civiltà dei consumi è un fenomeno economico–sociale tipico delle società industrializzate, nelle quali, per far fronte alla elevata produttività, è necessario il riacquisto continuo di beni e servizi.
Il consumismo è stato criticato sia da persone che scelgono altri modi di partecipare all’economia (per esempio una vita semplice o una vita lenta) e sia da alcuni opinionisti che valutano gli effetti negativi del capitalismo moderno: questi spesso evidenziano, a loro parere, il collegamento del consumismo con questioni come l’imperativo della crescita e dell’iperconsumo, che hanno un impatto maggiore sull’ambiente, compresi effetti diretti come il sovrasfruttamento delle risorse naturali o la produzione di grandi quantità di rifiuti provenienti da beni usa e getta, con effetti sul cambiamento climatico. Allo stesso modo, alcune ricerche si concentrano sugli effetti sociologici del consumismo, come il rafforzamento delle barriere di classe e la creazione di disuguaglianze. Esso si basa, dunque, sull’acquisto di beni superflui che, molto spesso, soddisfano bisogni indotti dalla pressione della pubblicità e/o da fenomeni d’imitazione sociale diffusi tra ampi strati della popolazione. È chiaro il clima in cui si muove oggi chi produce, chi vende e chi acquista. E’ stato un processo di sviluppo che ha portato alla trasformazione della società da un sistema agricolo-artigianale-commerciale ad un sistema industriale moderno, senza la dovuta consapevolezza delle conseguenze.
Ce ne ha dato l’opportunità la constatazione di questi profondi mutamenti sociali ed economici di cui siamo protagonisti l’allontanamento dalla civiltà eco-sostenibile, senza speranza di ritorno, se non per singole vicende personali volte al recupero di quiete e equilibrio. La diffusione di canoni quali quelli propugnati da un’economia circolare è un indirizzo che è ancora lungi dal l’affermarsi.
Con l’espressione economia circolare si definisce quella modalità di produrre e consumare in base a principi di sostenibilità. Vuol dire più precisamente rendere i prodotti quanto più possibile duraturi ed efficienti, riducendo di conseguenza la produzione di rifiuti. Anche i prodotti che hanno perso le loro originarie funzioni e sembrerebbero non più utilizzabili, sono in realtà composti da materiali che possono essere reimpiegati. L’economia circolare, contrapponendosi a un’economia di tipo lineare nella quale le risorse vengono usate e gettate senza promuovere un loro riutilizzo, può produrre innumerevoli vantaggi per il pianeta e per le imprese. Come si evince dalla lettura di Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti, questo tipo di modello economico garantirebbe un risparmio per le imprese dell’Unione Europea di ben 600 miliardi e allo stesso tempo farebbe scendere anche le emissioni di gas serra.
I due approcci più rilevanti dono i seguenti.
Riciclaggio: operazione per la quale, terminato un ciclo di lavorazione, una parte della materia prima di partenza, non ancora o solo parzialmente trasformata, viene riportata in lavorazione mediante una nuova immissione in ciclo.
Riciclo: è la trasformazione di materiali di scarto e rifiuti in nuove risorse o beni attraverso processi industriali più o meno complessi. Per funzionare, ha bisogno che il sistema della raccolta differenziata dei rifiuti sia rigoroso, condiviso ed efficiente. Da: ASM SET 7/nov/2020
Secondo la FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, durante la catena di produzione alimentare ben il 30% dei prodotti destinati alle nostre tavole viene sprecato.
Non solo, quando in prodotti raggiungono i centri di distribuzione e, successivamente, i consumatori, la percentuale di prodotti che finisce nella spazzatura è incalcolabile.
È ormai evidente che dobbiamo pensare ad un sistema in cui economia circolare agricoltura e sostenibilità costituiscono le fondamenta della produzione alimentare. Un processo, quindi, che ci permetta di ridurre gli sprechi e risparmiare, inquinare meno e mangiare prodotti più sani.
Agricoltura e filiera produttiva agricola trovano la loro dimensione ideale in un sistema economico circolare, che si rifà al processo ciclico della natura, dove non esistono sprechi e rifiuti.
L’agricoltura ha infatti un ruolo da protagonista in tema di economia circolare, dal momento che risulta essere il settore più coinvolto, quando si parla di responsabilità, tra i processi produttivi.
Oltre il 50% del terreno disponibile e il 70% del consumo di acqua potabile sono attualmente assorbiti dall’agricoltura. Per questo motivo, risulta fondamentale ora più che mai, riadattare i processi secondo le buone pratiche dell’economia circolare.
L’obiettivo non è solo quello di ridurre gli sprechi e la creazione di rifiuti, ma cercare di creare valore dagli scarti di produzione, come nutrimento per nuova produzione.
Il settore agricolo, infatti, è ricco di materie prime di recupero, scarti adatti per essere trasformati e inseriti in un nuovo processo produttivo.
Scopriamo in che modo, grazie anche alle innovazioni tecnologiche.
Cos’è e come funziona l’agricoltura circolare?
Secondo la Ellen MacArthur Foundation, l’economia circolare è un modello economico in grado di rigenerarsi da solo. In base a questo principio, ogni prodotto può essere rigenerato, riutilizzato, valorizzato e rimesso in circolo generando nuova vita, senza sprechi né rifiuti.
Il concetto di economia circolare, che prende ispirazione dal ciclo naturale, è perfettamente applicabile al settore agricolo. L’idea è spiegata chiaramente in “Biomimicry – Innovation Inspired By Nature”, uno dei più esemplificativi libri di economia circolare scritto da J. Benyrus sulla teoria della cicliclità della natura.
L’agricoltura circolare è, in parole semplici, un sistema agricolo innovativo in cui nulla muore, ma tutto si riutilizza e si rigenera divenendo risorsa produttiva.
Pensiamo ad alcuni scarti agricoli come semi, bucce di pomodoro o noccioli di olive. Nella maggior pare dei casi, si tratta di scarti di produzione, elementi non necessari che vengono trattati come rifiuti da buttare. Secondo l’economia circolare, questi rifiuti costituiscono un’importantissima risorsa produttiva.
In agricoltura circolare, esattamente come in natura, tutto può tornare a vivere.
Scarti e rifiuti agricoli sono prodotti biodegradabili, privi di componenti chimici e che possono essere impiegati in diversi modi, come fertilizzanti organici per i terreni ad esempio.
Applicare l’economia circolare nel settore agricolo può rivelarsi una delle soluzioni più efficaci per porre un freno al consumo tipico di una mentalità lineare.
Finora, infatti, ci siamo dedicati alla produzione attingendo dalle risorse naturali, con il risultato che stanno per terminare. Poi, abbiamo usato e consumato senza criterio, sfruttando meno della metà del potenziale dei prodotti e, infine, abbiamo gettato i prodotti quando non ci servivano più, producendo rifiuti che non vengono recuperati.
Questo ha provocato conseguenze gravissime per l’ambiente e le biodiversità.
Applicando le tecniche di sostenibilità in un sistema circolare, invece, non solo possiamo ottenere terreni più fertili grazie al riutilizzo di materiali organici e non chimici, ma possiamo eliminare ogni forma di scarto. Da questo punto di vista anche il risparmio sarà notevole.