L’ultima mano al pensiero – il vecchio non fa che smentire il luogo comune secondo cui il pensiero non conosce fine, può continuare quando vuole, a suo arbitrio. Con l’ebbrezza, il pensiero è costitutivamente finito, esige sempre un’ultima mano. Invecchiare è sentire quest’ultimità – per il vecchio, come per il pensiero, ogni giorno è l’ultimo bicchiere, quello che annebbia e sommerge. Giorgio Agamben, L’ultima mano all’ebbrezza, Portatori d’acqua, pag. 54.
Per stringere la metafora, si può dire di questo minuto libro ciò che comunemente si afferma di ogni buon vino e cioè che sta sempre nelle botti piccole. Diviso in quattro capitoletti, ospita anche diverse illustrazioni che concernono artisti come Piero Guccione, Paul Cézanne, Tiziano Vecellio, Claude Monet, Giorgione, il filosofo Kant, e precisamente un suo foglio manoscritto. In ultimo, un rilievo marmoreo risalente al II secolo dopo Cristo che raffigura Kairós. Questo, insieme alla bella copertina con un disegno di Renato Bertini ispirato alla Pietà Rondanini di Michelangelo, ciò che una descrizione sommaria presenta il libro nella sua conformazione apparente. In realtà, si tratta di un piccolo capolavoro che espone della vecchiaia, del suo tempo, e dei suoi sviluppi, “attimi” non solo esistenziali ma estetici e concettuali. Una riflessione, in pratica, che abbraccia l’opera “tarda” di artisti e filosofi poc’anzi citati o anche poeti, solo sfiorati di esempio, come Caproni e Hölderlin, o Goethe e Rilke, ma soprattutto stringe a sé la riflessione e la domanda sul che cosa possa significare invecchiare. Ovviamente nella sua oltranza di luogo e di tempo. Di ultimità, d’ideazione artistica o di creazione del mondo. O riflessione sul mondo. Sì, perché anche il mondo invecchia. “E con esso invecchiano i suoi popoli. Questa è la lucidità del vecchio, non pensare alle cose che gli sopravvivranno e che dovrà abbandonare, ma a quelle che lo hanno abbandonato e che deve lasciarsi alle spalle”. L’ultima mano, allora, diventa l’ultimo bicchiere che il pensiero si concede e accetta come possibilità di quell’ebbrezza che trova una certa misurabilità in quell’incommensurabile destino che è la fine di ciò che non finisce. Ultimo qui diventa sempre penultimo in una sorta di avvento che sempre avviene e che non si è in grado di riconoscere nella sua finitezza, nel suo paradossale éschaton. Non esiste fine? Non lo sapevano già gli antichi? Dove c’è la fine, non ci siamo noi. O noi o la fine! Agamben perciò traduce L’Aion come impossibilità sia del tempo vissuto sia (l’attimo) che trattiene il tutto. Tra Chrónos (il tempo misurabile) e Aion c’è Kairós, (l’Occasio) che l’iconografia immagina come un giovane alato tanto alle spalle che sui calcagni, che corre in piedi su una sfera e ha sulla fronte un ciuffo che occorre saper afferrare al momento giusto. Agamben cita a questo proposito Socrate della Repubblica: Se si lascia passare il Kairós della propria opera, si va in rovina.
L’analogia con l’opera d’arte è qui pregnante di una doppia riflessione, quella dell’illimitatezza creativa del processo artistico e quella sottolineata dallo stesso Agamben, di opera tarda. “L’opera tarda è l’occasione afferrata dell’opera. Anche se assume – come necessariamente assume – l’apparenza di un’opera, essa non è un’altra opera, ma, per così dire, la ripresa e la ritrattazione della propria opera”. L’artista, analogamente il vecchio, quindi nella sua fase tarda, “ultima”, ovviamente, si capisce come ciò non implica l’età (Hölderlin), recupera quella felice potenza della libertà di muoversi e di restare immobile. Ogni artista, maestro, poeta, filosofo ha, a questo punto, un modo d’invecchiare e di operare. Agamben interroga questo processo nell’evidenza del farsi magmatico della pittura nel caso di Tiziano, quasi “l’involgersi e ingorgarsi su stessa di ciò che prima era fluido e disteso”. Per Guccione, invece, la pittura diventa rarefazione totale del colore, quasi un tentativo di dipingere la luce nella sua assolutezza di evanescenza e realtà.
In Monet è la serialità di versioni inconcluse: non più un’opera una e identica a sé, ma un tout sans fin, un ordre sans horizon e sans rivage. Il poetare di Caproni è così la dissoluzione metrica, per cogliere l’essenzialità di una scrittura e, forse, di un dire, che mai si può acclamare o acclarare stabile. In Kant, ne è prova il manoscritto fotocopia riportato nel libro, il pensiero eccede se stesso in una sorta di disordine che per un filosofo come lui potrebbe apparire come una forma di ossessione, di psicopatia, di demenza, in realtà è il pensiero puro che si esprime nella ricerca di una totalità, di un’essenza, di un assoluto che si sa di non poter cogliere se non in quel processo epigenetico in cui è coinvolta la vecchiaia. L’ultima mano è questo rinascere e generarsi dal proprio passato. Che sia questo il segreto della vecchiaia? Ed ecco che la fine è qui, si legge nella postilla conclusiva del libro, la fine del tempo come fine della nostra apparizione, ed è così vicina che ci sfugge, ma forse, proprio ora che non c’è più tempo, si ha finalmente tempo, un po’ di tempo. Un congedo inesorabile, terribile nella sua semplicità e pur tuttavia sereno di quella saggezza o consapevolezza che si vive da soli e si sogna da soli. L’ultima mano sono anche queste pagine di straordinaria intensità e bellezza. Si professa e si custodisce ciò che non potrà essere condiviso né compreso se non nell’attimo di quell’ebbrezza che ci dice dell’ultimo esilio – ah, andarsene è davvero il luogo dei luoghi, il tempo dei tempi, la ventura delle venture…
Giorgio Agamben, L’ultima mano all’ebbrezza, Portatori d’acqua, pag. 54