Il fenomeno del land grabbing, che si ripresenta dopo ogni periodo di crisi economica, si configura come una vera e propria corsa alla terra, considerata come un investimento speculativo sicuro.
A partire dalla grande recessione registrata agli inizi del XXI secolo l’accaparramento delle terre ha dato vita ad una nuova geografia a scala mondiale coinvolgendo non solo le scontate direttrici, di matrice colonialista, nord-sud ma anche quelle di nuova generazione sud-sud (gli Emirati Arabi che accaparrano in Africa e in Asia oltre 2 milioni di ettari per l’approvvigionamento alimentare), nord-nord – in Romania investono alcuni Paesi dell’America settentrionale (36.660 ha), dell’Europa settentrionale (circa 70.000 ha) e di quella occidentale (151.000 ha) – e sud-nord come nel caso della Cina che, ad esempio, capitalizza nell’Europa orientale (274.000 ha).
Traiettorie che confermano come il fenomeno del land grabbing sia ormai globale e coinvolga, con ruoli e funzioni diverse, la gran parte dei Paesi del mondo, ridisegnando una nuova rappresentazione cartografica, dove i confini tra Paesi predati e predatori sono meno netti e più liquidi e la linea di demarcazione, che un tempo poteva corrispondere a quella dell’equatore geografico, si è sbiadita fino a risultare liquefatta.
Altrettanto ambigua è la finalità dell’accaparramento fondiario: i paesi predatori utilizzano le terre conquistate solo raramente per destinarle alle colture alimentari (riso, olio di palma, canna da zucchero, mais), mentre nella gran parte dei casi le utilizzano per le colture no food (biomasse) quando non le lasciano addirittura incolte accontentandosi della sola rendita d’attesa.
Confrontando gli ettari acquistati e/o affittati e quelli realmente messi a coltura emerge, infatti, un quadro ancora più sconcertante, a conferma che dietro questi investimenti si celano azioni speculative spesso smascherate da motivazioni ipocrite che vorrebbero legittimarle attraverso la sicurezza alimentare e la produzione di energia rinnovabile.
L’accaparramento fondiario sta, viceversa, compromettendo i quadri ambientali, economici, sociali, politici e culturali non soltanto nei Paesi depredati – dove genera fame e indigenza nella popolazione rurale e alimenta flussi migratori forzati – ma anche, e paradossalmente, negli stessi Paesi predatori dove la terra, non più patrimonio da salvaguardare per assicurare la sopravvivenza alla presente e alle future generazioni, è oggi considerata una commodity su cui investire e speculare.
Nei Paesi predati si consumano drammi locali con rivolte e vittime che muoiono in difesa della loro terra. Un dato impressionante e inequivocabile pubblicato dalla The Rights and Resources Initiative (2017) è che nel 2015 sono morte 185 persone per difendere la proprietà terriera e l’ambiente.
Per contrastare il fenomeno del land grabbing, si rende necessario in primis, informare, formare e sensibilizzare alle problematiche territoriali, cioè conoscere in profondità le realtà geografiche. È fondamentale partire dalla valorizzazione dei luoghi e dalla tutela dell’agricoltura familiare che in modo lenticolare organizza e tutela gli spazi coltivati, assicurando alle singole comunità umane autonomia e sopravvivenza, garanzia di sostenibilità e coesione sociale. Acqua e terra sono risorse indispensabili alla vita e quando vengono sottratte alle comunità umane, che da esse traggono la loro sussistenza, le uniche opzioni possibili per loro sono la fuga dai loro Paesi o la morte per fame, per annegamento, per suicidio.
Ci sono poi altre azioni incisive che potranno e dovranno essere avviate con urgenza, prima tra tutte quella di insegnare alle comunità locali come valorizzare e ottimizzare l’uso delle risorse indispensabili alla loro sopravvivenza. Monitorare e contrastare la diffusione del land grabbing equivale, dunque, a operare direttamente tanto per combattere la fame nei paesi del sud del mondo quanto per promuovere la sostenibilità ambientale. Lungo questa strada e in tutte queste azioni da intraprendere un ruolo di primo piano spetta e dovrà essere svolto non solo dai governi nazionali, ma anche e soprattutto dagli Organismi sovranazionali e dalla Cooperazione internazionale.
Guardando la cartografia del land grabbing a scala europea si colgono maggiori dettagli del fenomeno non solo relativamente alla sua portata (l’Olanda, il Regno Unito e l’Italia si classificano ai primi posti per terre depredate), ma anche rispetto alla sua distribuzione e diffusione, che dividono nettamente l’Europa occidentale, fortemente coinvolta dal fenomeno, da quella orientale che, invece, vi partecipa solo marginalmente. La diffusione del fenomeno nella parte ovest dell’Europa richiama alla memoria la persistenza di una radicata cultura colonialista dove gli attori, che sono sia gli stessi Stati – alcuni direttamente implicati nell’acquisto di terre – sia le società multinazionali, continuano la corsa alla terra per biocarburanti, risorse alimentari e rendimenti finanziari.
Secondo un rapporto del Parlamento europeo (2016) le società finanziare europee detengono il primato per gli investimenti nel settore infrastrutturale agricolo, il cui fine è chiaramente il profitto come confermano alcune operazioni speculative di acquisti di terreni che vengono poi rivenduti a prezzi maggiorati.
L’Europa è coinvolta sia direttamente attraverso i suoi Stati, sia indirettamente attraverso le sue politiche ed accordi commerciali, come quello sottoscritto nel 2001 Everything But Arms (EBA) in cui le importazioni nell’UE dai Paesi meno sviluppati del mondo sarebbero state esenti da qualsiasi dazio o restrizione, tranne che per le armi e le munizioni. Conseguenza di questo accordo è stata la sovrapproduzione di zucchero in Cambogia, ad esempio, che, da una parte, ha comportato la distruzione di foreste e aree protette sottraendo le terre ai piccoli proprietari terrieri, dall’altra parte, ha compromesso la produzione di zucchero dei Paesi acquirenti. Da qui la campagna di sensibilizzazione Clean Sugar (http://www.boycottbloodsugar.net/the-campaign/).
Recentemente il Parlamento europeo ha preso consapevolezza del problema attraverso la risoluzione 2016/2141(INI), mettendo in evidenza – alla luce anche degli studi di settore prodotti – che la tendenza attuale del sistema agricolo europeo (nel 2013 nell’UE-27 il 52,2% della superficie agricola utilizzata in Europa era controllato soltanto dal 3,1% delle imprese, e, per contro, il 76,2% delle imprese aveva a disposizione una quota di terreni agricoli pari solo all’11,2%) è contraria al modello di un’agricoltura sostenibile, multifunzionale e ampiamente caratterizzata da aziende a conduzione familiare (Parlamento europeo, 2017).