Negli anni in cui mi sono occupato di cronaca giudiziaria in Campania, anni ahimè lontanissimi, quasi mai mi è capitato di ascoltare, da un magistrato, parole di stima per gli avvocati o anche per uno soltanto di essi. È un eufemismo il “quasi mai”, perché in mente non mi torna una sola eccezione rispetto a quello che dev’essersi radicato come un convinto giudizio di minorità professionale nella coscienza talvolta opaca di molti giudici. Fu perciò sorprendente quando, per motivi familiari, ebbi modo di conoscere nell’intimità domestica una toga senza foglie di alloro o di mirto sulla testa, che considerava gli avvocati come i migliori, insostituibili compagni di viaggio nel tenace sforzo del processo. D’altronde, gli avvocati li aveva in casa: a cominciare dal padre, dai fratelli e dal figlio. Quel giudice era Antonio Siniscalchi, già Procuratore Generale aggiunto presso la Suprema Corte di Cassazione, che è andato via proprio un anno fa, il 25 maggio del 2023, scegliendo in silenzio, e senza avvertire nessuno, nuovi orizzonti di senso e di esistenza, lasciando ai ricordi, che noi coltiviamo con cura, la traccia della sua attività intellettuale intessuta di complesse e prestigiose esperienze.
Agli inizi degli anni ’60, cominciò la sua carriera come pretore, dapprima a Napoli – nella severa atmosfera di Castel Capuano, palcoscenico del più luminoso e tonante foro penale – e poi a San Cipriano Picentino e Mercato San Severino, luoghi di lavoro e di quotidiano confronto con le comunità che li abitavano e che, nelle visite dell’età matura in cerca di orme e di ricordi, gli facevano diradare l’ombra corrusca degli anni che avanzavano. Un giorno tornammo a San Cipriano per un pranzo pasquale all’aria aperta e quasi non riconosceva più le vecchie mura di quella pretura dove aveva cercato la giustizia negli eventi semplici di esistenze grame, radicate alla terra e alla sua ostinata difesa. Lo smarrimento durò poco e “il presidente” – l’ho sempre affettuosamente chiamato così – tra una ricerca e l’altra, ritrovò, di fianco a uno slargo, le antiche scale del suo percorso quotidiano. I pensieri, come pesci che risalgono improvvisamente verso la rete, riaffiorarono. Provenivano dal tempo filiforme di lontananze arcane: gli avvocati, i pochi impiegati, il maresciallo diventarono nomi, cognomi, parole, volti, aneddoti, gioie, suoni, specchi, frammenti ricomposti da un discorso interiore che liberava pezzi di vita su uno schermo invisibile. Un intermezzo poetico senza versi fu quel pomeriggio caldo di sole sul dorso verdissimo dei Picentini. E una vita trascorsa tornò a pulsare come in un film di meraviglie e di invenzioni registiche, tra onde alte e teneramente violente di memorie.
Il tempo è un enigma, sia che inceda nel suo passo solenne sia che ristagni suscitando in chi lo subisce la tentazione di allungarlo, ma il tempo più temuto è quello perduto e mai più ritrovato. Questo rischio Antonio Siniscalchi non lo ha mai corso. I giorni e gli anni che gli fuggivano alle spalle erano recuperati dalla sua capacità di raccontare con un’aneddotica fluente, che prendeva d’infilata i silenzi dello studio e del desco e rimbalzava tra lui e gli interlocutori con slanci appassionati e solerti rinvii. Era bravo a giocare nel creare comunità non solo familiari, a osservare la vita dal balcone dei teneri ricordi, o che evocasse la sua terra natia (Nocera) o quella di adozione (Baronissi). Gioco di parole e pensieri proiettati nel vuoto, di burlate ironiche, aneddoti danzanti tra imbarazzi e risate. Quando non gli bastava la voce, “il presidente” si aiutava con il pianoforte, esibendosi per gli amici predisposti all’ascolto dall’immancabile ottimo vino rosso della fornitissima dispensa.
Verrebbe da dire, ricordandolo in questo giorno triste, “se questo è un giudice”. Eppure, nella transizione storica che stiamo vivendo, nella quale la magistratura è impegnatissima nel confronto politico dal quale origina la guerra non sempre incruenta tra formazioni contrapposte, egli ci appare proprio come un giudice, il vero giudice, pur avendo ricoperto dal 1987 fino al collocamento a riposto (2010) le funzioni più alte della pubblica accusa nel nostro paese. Dopo tre anni, dal 1984, alla Corte d’Appello di Potenza come consigliere, egli fu infatti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Salerno; dal 1994, gli vennero poi conferite le funzioni di Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione e, dal 2001, quelle di Avvocato Generale, cui si aggiunsero gli incarichi di dirigente e coordinatore generale dell’intero servizio disciplinare. Contemporaneamente, gli fu affidata anche la dirigenza del servizio penale ed egli svolse di fatto e per lungo tempo l’incarico di Procuratore Generale aggiunto, con la sorveglianza che gli fu affidata sul Procuratore Nazionale Antimafia e sulla relativa Direzione Nazionale. Fu al vertice, dunque, della magistratura italiana senza che mai il riflettore del protagonismo togato lo investisse, senza che mai una ribalta mediatica ne consegnasse l’identità a lettori e telespettatori. Non aveva tempo né voglia di dedicarsi all’insulso clamore dei tamburi nel nulla. Le luci del teatro giudiziario non hanno avuto modo di penetrare la penombra del suo studio di casa o di quello del Palazzaccio, i due antri protetti nei quali scrutava, in lunghe giornate di studio e di ricerca, gli spazi spesso evanescenti tra il giusto e l’ingiusto, la verità umana e giudiziaria, l’illecito e la domanda di giustizia.
Credo che il motivo di tanta diversità risieda nel fatto che, una volta infranta, proprio la giustizia abbia bisogno di essere ritrovata, reintegrata, con un’operazione che richiede strumenti certi di assoluta obiettività. Dopo il verificarsi dell’illecito, si apre uno spazio di sospensione nel quale si inserisce il processo, che ha l’obiettivo di fugare ogni dubbio o di ammettere la insormontabile verità di esso, mai di suscitare altri dubbi. Pensando alle sue convinzioni, torna in mente l’Aldo Moro dei giovanili e severi studi giuridici, per il quale il processo era “una battaglia di attesa”, durante la quale le passioni devono acquetarsi perché intorno al dramma del male, sosteneva il grande giurista, si fa silenzio, serve innanzitutto il silenzio, per favorire il raccoglimento e, in esso, ritrovare la verità. Era questa la logica del “presidente” Siniscalchi, essendo per lui indispensabile riconquistare, come in un rito, il distacco finalizzato all’imparzialità, l’unico stato morale da interporre tra l’illecito e la sanzione. Un atteggiamento da giudice, si dirà, pur essendo egli titolare del più alto ufficio della pubblica accusa. Cercava infatti la verità, Antonio Siniscalchi, anche per accusare, con decisione sofferta e a volte desolata. E quando gli elementi lo portavano a concludere diversamente, chiedeva l’assoluzione, senza portare avanti alcun forzato “teorema” o impianto accusatorio. E in questo percorso accidentato e aspro della ricerca della verità dei fatti, nelle pieghe del processo, non si può procedere da soli, ma occorre la collaborazione preziosa e insostituibile di tutte le parti coinvolte. Egli ne era convintissimo. Nasce proprio su questo terreno friabile, smosso dalle passioni e dagli antagonismi dialettici, il suo rapporto dibattimentale saldissimo con il foro penale.
Nella sua vita non c’è un solo episodio in cui l’attuazione del diritto sia stata finalizzata a un’autoritaria e arrogante attuazione della giustizia. La prepotenza, egli ci ricordava quando le memorie giudiziarie malinconicamente affioravano nella sua mente, non ricostruisce pacificamente l’ordine sociale infranto dall’illecito. E la pace era per lui indispensabile per sconfiggere il male nell’intimo delle coscienze. Si spiega così la richiesta di assoluzione senza rinvio per l’ex ministro Calogero Mannino (“Qualche frequentazione, nemmeno uno straccio di prova per il concorso esterno in associazione mafiosa, nulla di nulla”: non amava parlare del suo lavoro d’un tempo, ma un giorno, da me incalzato, mi sintetizzò così la sua requisitoria). E così si spiegano pure i doni che i detenuti del carcere di Mercato San Severino, quando era ancora un semplice Pretore, gli facevano a Natale e a Pasqua: lavori realizzati per il giudice che li aveva sì condannati ma – come essi ben sapevano – lo aveva fatto per evidenze processuali, con umana comprensione e nel rispetto della loro dignità.
Tuttavia, quando lo studio del processo gli forniva tutti gli elementi relativi alla colpevolezza diventava implacabile. Lo fu per il collega Corrado Carnevale, per il quale dopo una lunga e appassionata arringa chiese la conferma della sentenza per concorso esterno in associazione mafiosa, addirittura adombrando per lui responsabilità ben più gravi. La Corte, però, “salvò” l’illustre imputato con una decisione che ancora inquieta.
Accadeva, talvolta, che “il presidente” fosse convinto a metà della verità dei fatti. Anche in questi casi, la coscienza gli imponeva di trasferire la sua moralità in una problematica richiesta. Fu così quando, nel processo Berlusconi, gli avvocati del Cavaliere invocarono il “legittimo sospetto”, cioè il condizionamento ambientale dei magistrati che avrebbero dovuto giudicare il potente uomo politico, chiedendo una nuova sede per il dibattimento. Dopo uno studio profondissimo, che lo legò al suo tavolo di lavoro e ai suoi libri per settimane, Antonio Siniscalchi concluse affermando che il condizionamento non era più attuale, ma c’era stato con evidenza in alcune fasi del processo. Gli avvocati di Berlusconi non ebbero, così, il conforto del Procuratore Generale, ma apprezzarono la sua discussione e si complimentarono con lui per il coraggio con cui aveva ammesso la “parzialità” dei giudici in alcune fasi del giudizio.
Tanti avvocati, anche quelli che vide debuttare decenni addietro nelle Preture del Salernitano, un anno fa sono venuti a Baronissi per l’ultimo omaggio. Il foro, anzi, è stato più presente della stessa magistratura e lo notarono in molti. Un attestato di stima di cui certamente Antonio Siniscalchi sarebbe andato fiero se avesse potuto assistervi, un riconoscimento “terzo” per un lavoro incessante che ha finito per identificarsi con la stessa sua esistenza.
Egli veniva da altri tempi e verso altri tempi desiderava andare; perciò, lo inquietavano i protagonismi mondani dei colleghi, spesso attirati dal predominio di una giustizia forte, che in fondo finisce per non essere più giustizia. Da qui, la sua convinzione dell’imprescindibile esigenza di separare le carriere e di eleggere i membri del Csm attraverso il sorteggio, per liberare un organo costituzionale dalla palude del correntismo e dalle carriere predeterminate a tavolino. Nonostante tutto, però, non ha mai preso posizione pubblica contro questa deriva, perché la toga che ha indossato per cinquant’anni era per lui sacra e temeva di danneggiarne la valenza simbolica.
Un giorno, in un lungo e caldo dopopranzo domenicale, lo provocai e gli lessi un pensiero divenuto aforistico di Piero Calamandrei. Era questo: «Nel giudice non conta l’intelligenza, la quale basta che sia normale per poter arrivare a capire come incarnazione dell’uomo medio, “quod omnes intellegunt”: conta soprattutto la superiorità morale, la quale deve essere tanta da far sì che il giudice possa perdonare all’avvocato di essere più intelligente di lui». Non disse espressamente di condividerla. Non poteva confermare un giudizio severo sul mondo che lo aveva visto al vertice. Tuttavia, posò la sua mano sulla mia (a tavola sedevo sempre al suo fianco), mi guardò e abbozzò un sorriso. Io capii che non voleva dirlo, ma che aveva condiviso il pensiero del grande giurista, padre della nostra Costituzione.