Una ventina di anni fa mi trovavo seduto con amici ad un Bar del lungomare di Salerno, dietro di me sentivo un vocione grave che parlava con la tipica biascicatura salernitana che non sentivo da tempo, mi voltai e lì conobbi un armadio a due ante di poco più di 1,90; Fiorello (sic!) un ragazzone di venti anni nero come la pece… mi raccontò un po’ la sua vita di ragazzo fortunato, adorava la mamma e il padre che l’avevano adottato ad un anno; voleva fare il carabiniere come il papà e stava festeggiando con gli amici di scuola perché da poco gli avevano notificato di essere stato ammesso alla scuola Marescialli & Brigadieri a Firenze; si sentiva italiano nel suo più intimo, del resto parlava un italiano con la tipica cadenza salernitana: cos’altro poteva essere se non un terrone doc?
Ricordando questo episodio, la notizia appresa giorni fa che in Italia vivono circa 870.000 bambini “stranieri” che vanno a scuola e parlano italiano, di cui più di un terzo nato qui da noi, tutti privi di cittadinanza… mi lascia confuso perché mi sovviene anche il ricordo che quella cinesina di 10 anni, Anna, conosciuta tanti anni fa, che prendeva gli ordini del ristorante dei genitori in perfetto italiano, era priva di cittadinanza anche se nata a Salerno: oggi è moglie di un italiano ed ha figli salernitani. Fiorello ed Anna, secondo alcuni, sarebbero gli antesignani dell’armata straniera per la paventata sostituzione etnica: ecco, perciò mi spiego perché nel 2024 c’è ancora tanto timore a fare una legge dignitosa almeno per i bambini nati qui.
È una sfida socio-psicologica di rilevanza crescente, la presenza di questo fatto mostra una serie di problematiche sociologiche e psicologiche che vanno al di là dei confini giuridici e con effetti a lungo termine sulla società, soprattutto su questi bambini che prima o poi per forza di cose faranno parte attiva della nostra nazione e forse in futuro ci governeranno finanche, come è successo a Londra con il sindaco Sadiq Khan (Pakistano) e a Francoforte con la sindaca Nargess Eskandari (Iraniana).
L’assenza di cittadinanza porta con sé una serie di barriere che possono ostruire l’accesso a servizi essenziali, questo non solo mina i diritti fondamentali dei bambini, ma crea anche un ciclo di emarginazione e disuguaglianza sociale che può perdurare per generazioni. La mancanza di inclusione può alimentare sentimenti di alienazione e frustrazione, contribuendo alla formazione di una classe sociale marginalizzata e vulnerabile e che ha buone possibilità di rivoltarsi, la Francia insegna.
Dal punto di vista psicologico, l’identità dei bambini senza cittadinanza può essere soggetta a una profonda instabilità. Crescere in un ambiente in cui non ci si sente pienamente accettati o riconosciuti può generare sentimenti di inferiorità, confusione e persino vergogna riguardo alle proprie origini. La mancanza di radici vecchie e l’assenza di nuove toglie qualsiasi senso di appartenenza e può compromettere lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé stessi, influenzando negativamente il benessere emotivo e la capacità di relazionarsi con gli altri.
Inoltre, i bambini stranieri senza cittadinanza possono essere esposti a esperienze di discriminazione e pregiudizio da parte della società circostante. La xenofobia e il razzismo causano chiusure e traumi psicologici duraturi alimentando sentimenti di rabbia e sfiducia verso la comunità in cui vivono. Da ciò nasce una sorta di autoisolamento sociale (e culturale), facilmente sfruttato da individui senza scrupoli con conseguenti difficoltà nel costruire relazioni positive e nel partecipare pienamente alla vita civica e culturale del paese ospitante.
È fondamentale adottare politiche che garantiscano l’accesso universale ai diritti fondamentali, includendo l’implementazione di programmi educativi e di integrazione sociale che promuovano la diversità e l’inclusione, così come -in attesa di una legge definitiva ed intelligente- l’attuazione di regolamenti ponte che proteggano i diritti dei bambini senza cittadinanza.
E noi, cosa comunichiamo ai nostri figli?
…Ma tutto comincia qui da noi, all’interno delle nostre case. L’incontro dei nostri figli piccoli con compagni di scuola di diverse etnie, religioni o background culturali, offre un’importante opportunità per insegnare loro i valori fondamentali di rispetto, accettazione e inclusione. Come adulti abbiamo il compito di guidarli attraverso questo processo educativo cruciale, affrontando le diversità con apertura mentale: è inaccettabile che ancora oggi ci siano genitori che si esprimano con epiteti come Carboncino o Limoncello: i bambini, inevitabilmente li ripeteranno in classe ai compagni di scuola scuri di pelle o asiatici: è vomitevole.
Quando i figli pongono domande su compagni di scuola di diverse etnie, occorre rispondere in modo onesto e appropriato all’età, fornendo loro informazioni che favoriscano il rispetto reciproco perché i bimbi da soli neanche ci pensano alle differenze divisive. Inoltre, è importante sottolineare l’importanza dell’amicizia senza barriere, dobbiamo incoraggiarli a fare amicizia con persone di diverse origini e a cogliere l’opportunità di imparare da esperienze e prospettive diverse. L’amicizia può essere un potente veicolo per la crescita personale e la costruzione di legami significativi al di là delle differenze superficiali: dobbiamo renderci conto che la multietnicità è già nel presente e lo sarà sempre più nel futuro. Noi adulti dobbiamo evitare di trasmettere stereotipi e pregiudizi che portano a discriminazioni, perché “Niente al mondo è più pericoloso di una sincera ignoranza ed una stupidità coscienziosa” (M.L. King)