Trione, nell’atelier di Anselm Kiefer

Lo scrittore tenta un’esplorazione totale dell’arte e lo fa non senza contraddizioni e scivolamenti. D'altronde, un libro è sempre esplorazione di un’origine, una sapienza che non sta né nell’idea di materia né in quella di un libro che vuole al pari di ciò che tratta essere quanto più esaustivo possibile.

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Per cogliere il senso possibile dello scandaloso gesto di un artista che mi «interroga» da anni, ho scelto di andare ai piedi delle Cevenne, nel sud della Francia, a 650 chilometri da Parigi e a 170 da Marsiglia e da Lione. Per risalire all’origine dell’arte di Anselm Kiefer – una questione metafisica ma profondamente concreta – ho deciso di entrare nel suo atelier di Barjac. Che ho scelto di sacralizzare. L’ho visitato. Abitato. Quasi intervistato, con il taccuino in mano e la fotocamera dello smartphone sempre in funzione, pronta a catturare immagini. Come se quel luogo dovesse parlarmi. Come se avesse segreti da rivelarmi sul suo padrone di casa schiavo cardiaco delle stelle (per dirla con Pessoa), creatore di biblioteche di piombo, pittore dell’ultimo giorno, portiere di notte della nostra modernità declinante. Vincenzo Trione, Prologo celeste, Nell’atelier di Anselm Kiefer, Einaudi, pag. 376.

Libro dalla struttura trinitaria come si conviene a un’apparizione divina. O a una scrittura sacrale. Il sacro richiede sempre una disposizione propria, una costruzione, un assetto, o perfino un desiderio. Perché se non si può parlare più di Dio, si può sempre farlo in nome di un surrogato o di un discorso, di un abboccamento, di un linguaggio nella misura di un resoconto o di un impossibile diventato sempre più avverabile, più tangibile: più reale di una menzogna o più illusorio di una verità.

Il libro è diviso in tre grandi sezioni intitolate Prometeo, Efesto e Sisifo, suddivise ognuna in tre piccoli capitoli. La prima: A Barjac, In guerra, Atelier. La seconda: A Croissy, I giorni, E le opere. La terza­: Polis, Epos, Iconoclastia. Tra una sezione e l’altra spicca un cospicuo apparato iconografico di Barjac e Croissy, dove, purtroppo, si può solo avere una minima idea dei luoghi che l’autore ha visitato e che sono sia “la casa”, una sorta di dimora spirituale, sia il suo “studio”, enormi laboratori, biblioteche e fucine smisurate, dove l’artista plasma la sua materia “lontano dal mondo” e dalle sue immonde consuetudini e disarmonie.

Molte opere e installazioni presentate in musei, chiese e palazzi di tutto il mondo sono riprodotte sparse nel libro per una visione d’insieme che subito lascia trasparire una misura titanica e un marcato elemento di acquiescenza e referenzialità. Si parla di un centinaio di autosnodati che hanno trasportato qui parte del contenuto degli studi precedenti. Dalla Germania, circa trent’anni fa, Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945) ha traslocato libri, fotografie, quadri e tutto ciò che era possibile trasportare per creare in quel paesaggio incontaminato della Francia, il suo sogno, la sua vocazione, la sua missione. Ha deciso, scrive Trione, di appropriarsi di quella cornice selvaggia, estesa non sulla ma dentro una collina disabitata.

Forse, sulle orme di alcuni versi della Genesi: “La terra era deserta e vuota e il vento di Elohìm aleggiava sulla superficie delle acque”. Libro di viaggio (Nella mia flânerie, mi perdo tra quadri nei quali sono state incastonate reliquie varie – ad esempio, biciclette – con effetti stranianti. Paesaggi scossi da terremoti, poi impietriti, essiccati, condotti alla quiete. Campi deserti, tra ruderi e architetture dispotiche. Mari, onde, distese di rose e di papaveri. Firmamenti che si disperdono. Vedute di cieli, tra soli bianchi, sciami di asteroidi, ammassi stellari, spirali, vie lattee. Dipinti a emulsione, con colori ad acqua e olio di trementina. Cartografie celesti, con combinazioni di lettere e di numeri, che rimandano ai contrassegni utilizzati dagli astronomi. E vorticano, come un pulviscolo.) e di suggestioni, questo saggio, manuale, catalogo, sembra essere piuttosto un esercizio di dottrina impulsiva e compulsiva. Si possono leggere ben una ventina di pagine di note; ovvero, di rimandi ad altri libri, come a suggellare non una tesi, un pensiero, un possibile methodòs interpretativo, ma un conforto di autorevolezza o soltanto un’altra fascinazione; insomma, una varietà tipicamente attuale, per quel che si possa intendere un eccedere in superficie declinandolo come il massimo di una profondità. Un libro, allora, questo di Trione, che nella sua molteplice dimensione di spazio geografico e “celeste” (l’arte, nella sua accezione più vasta), si dà come eventualità essenzialmente ermeneutica.

Trione tenta un’esplorazione totale dell’arte di Kiefer, e lo fa non senza contraddizioni e scivolamenti. E come potrebbe essere altrimenti? Un libro è sempre esplorazione di un’origine, quindi una sapienza che non ha nulla di sapienziale. Sapienza che non sta né nell’idea di materia né nell’idea di un libro che vuole al pari di ciò che tratta essere quanto più esaustivo possibile. L’arte sfugge ininterrottamente, ma saltuariamente l’afferriamo. L’arte è via di fuga e di presa. È titanica sempre, poiché è immenso il mondo. Nel caso di Kiefer, Trione ci dice che è perturbante e solenne ma quale arte non lo è? Non si tratterebbe, invece, di comprendere che carpire i segreti dell’arte o anche delle sue moine, ci sarebbe bisogno di un diverso approccio, magari una più attenzione alle cose semplici. Forse che “origine”, “primordiale” non potrebbe essere tradotto con linearità, chiarezza, essenzialità? Forse, non ci sarebbe bisogno di chiedersi che cosa sia essenziale? Che cosa significa semplice? Che cosa significa interrogarsi?

Nel frattempo possiamo anche tentare il libro. Interrogare il libro. Interrogare le nostre stesse domande. Con una profonda coscienza morale, scrive Trione, Kiefer pensa la propria azione come una forma di denuncia e di resistenza: un modo per dire la verità; un tentativo per far affiorare un senso di umanità dalle ceneri. Sempre attento, però, a decretare con forza l’autonomia dell’arte dalla sfera sociale, dalle sue ingiustizie, dai suoi complotti, dai suoi tumulti. Ecco, quale Verità ci rivela Kiefer, ammesso che ciò sia il compito dell’artista? Quando si fa opera d’arte, scrive ancora Trione, il Male diventa altro da sé. Non evidenza ma visione. Si pensi a quel che accade nei Disastri della guerra di Goya, ne La zattera della Medusa di Géricault, nell’Eclissi del sole di Grosz, in Guernica di Picasso e nelle Teste d’ostaggio di Fautrier. Sulle orme di questi quadri molto civili, Kiefer mira a saldare una “scrittura” diurna con una notturna: si pone in ascolto dei sussulti del Novecento e, insieme, si abbandona a un insicuro viaggio al termine della notte. Compie una discesa negli inferi del passato, attento a dar voce a quel che sussurrano i demoni del cuore. Questa dimensione celiniana colloca Kiefer a pieno titolo nel controverso e totalizzante ventesimo secolo. Kiefer un epigono? Probabile. Tuttavia, non basta un riferimento letterario a dichiararlo tale, basterebbe però l’aver sfogliato qualche catalogo d’arte per una rapida analisi formale delle opere. Non rientra l’opera di Kiefer in quel periodo di successo e di ritorno alla pittura che insieme alla Transavanguardia ha dominato la scena artistica negli anni ottanta subito dopo la scorpacciata dell’arte povera? Certo, si ha a che fare con un artista la cui complessità non è da ascriversi al solo gesto espressivo o formale. Kiefer inizia con Beuys e prosegue con l’ossessione della storia in generale, ma soprattutto quella tedesca, e continua con il mito, con le leggende, con la memoria e con tutto ciò che abbia a che fare con la poesia nella sua determinazione filosofica o più autenticamente evocativa. (Paul Celan, Ingeborg Bachmann). Tuttavia, tutto ciò si deve affrontare in pittura, o in scultura (forse la vera cifra di Kiefer, si guardi gli “illeggibili” libri di piombo, suo materiale preferito, gli aerei che non possono decollare, o i traballanti palazzi celesti che non possono cadere), cosicché le suggestioni non bastano. La pittura (ma l’arte in genere) ha a che fare con la materia e il suo farsi e decomporsi, quindi un processo alchemico che vede irretiti sia la parola sia il gesto, sia il Logos sia la Poiesis. Leggiamo, a proposito, cosa dice Trione. “Come Pollock e de Kooning, Kiefer sperimenta un’arte formata sull’informe, intraprendendo un cammino nell’oscurità dell’istante che si vive. Si lascia assorbire dal quadro, al punto da fare tutt’uno con esso. Per cancellare ogni distanza, è immerso nel colore, nella sabbia, nell’argilla. Smarrito dentro qualcosa di enigmatico, si compenetra con un groviglio di elementi. Sul punto di lasciarsi assorbire dallo sfondo, assiste all’imperscrutabile dinamica del dipinto – pura contraddizione nutrita dal caso”. E dal gioco, aggiungerà l’artista. Le strade battute perdono la loro bellezza, dichiara Kiefer.

Una strada battuta è un’illusione perché finge di avere una direzione. È quasi biblico: una strada larga porta all’inferno. Mentre quelle anguste conducono nel Regno dei cieli. Ecco la meta, per questo creatore che intende l’arte come un “infinito approccio all’assoluto”. Andare a caccia d’immagini al limite del pensabile. Tentare di fermare l’ultima icona possibile, prima del diluvio o dell’apocalisse. Cercare di “esprimere l’ineffabile e l’indefinibile con mezzi diversi dalla logica e dalla scienza”. L’arte, appunto. Si traccia, o almeno così sembra, una linea possibile che possa riassumere le tante biforcazioni di una riflessione che qui vede coinvolto un artista monumentale nei fatti, possente e titanico nel suo spaziare nei molti ambiti, sarebbe un lungo elenco che va dall’astronomia alla fisica, dalla statistica alla sociologia, dalla letteratura alla saggistica, dalla poesia alla filosofia, e chi più ne ha più ne metta, ne deriverebbe una specie d’enciclopedia dello scibile umano; e forse, tutto ciò per una forma di sapienza che non vive da nessuna parte se non come suggestione o finalità estrema. O desiderio incolmabile. Una sapienza cui si accede non per accumulo di esperienze ma per differenza, per necessità di comprensione, o di colpa, per quel bisogno di domandare infinito che è evidente nella natura dell’uomo. Non solo possiamo dire, allora, di Kiefer che è un artista “fuori misura”, ma che lo sono tutti gli uomini che insistono in quel domandare incessante sul senso della vita. Forse, “primordiale”, “semplice” è questo domandare e rispondersi senza tregua su ciò che è più vicino in quell’immensa distanza che separa l’uomo dalle cose. La pittura di Kiefer, allora, diventa emblema di una corrispondenza, di una suggestione, di un trascendere continuo, o di un impulso irrefrenabile che è il fare dell’arte.

Ha ragione Trione quando scrive che dipingere è un po’ come narrare, una presenza impossibile da cancellare, disseminatasi in una trama diffusa di pratiche. Un’esigenza intemporale. Un istinto insopprimibile, di cui gli uomini non possono fare a meno. Un’urgenza ineliminabile, che rinvia a uno specifico modo di vedere e di rappresentare il mondo. Un processo, che custodisce una potenza originaria. Dunque, è un’occasione per reagire alla bulimia visiva contemporanea, alludendo a quella necessità primaria di cui aveva parlato Wind: “Bastano una matita o un pezzo di gesso, nella mano dell’artista, per allargare il campo delle sue possibilità di là dei limiti naturali della sua persona”. Quando si arriva alla fine di un viaggio, così come alla fine di un libro, o di un testo qualsiasi, come quello che mi accingo a terminare, si ha come la sensazione che tutto diventa piccolo e ridicolo. E, allora, si è sopraffatti dallo sgomento e dalla miseria delle nostre azioni. E, allora, soltanto allora che qualcosa di essenziale accade. Quel qualcosa che non fa in tempo ad apparire che subito è già svanito. In fondo, abbiamo letto di un viaggio ai confini di uno studio-abitazione di un’artista. Eremo o reggia che sia la sostanza non cambia. A essere di contatto con le cose mute è sempre e soltanto la parola, non le proporzioni.

[Vincenzo Trione, Prologo celeste, Nell’atelier di Anselm Kiefer, Einaudi, pag. 376]

 

Vincenzo Trione (Sarno 1972) è professore ordinario di Arte e media e di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università IULM di Milano, dove è Preside della Facoltà di Arti e turismo. Ha curato mostre in musei italiani e stranieri e il Padiglione Italia della LVI Biennale di Venezia (2015). Per Einaudi ha pubblicato nel 2017 Contro le mostre (con Tommaso Montanari), nel 2019 L’opera interminabile. Arte e XXI secolo e nel 2021 Artivismo, Arte, politica, impegno.

 

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