Chi vuole resistere in un mondo fabbricato e messo in forma dal comando e dallo sfruttamento, deve innanzitutto cercare quello che nel mondo non è comando e sfruttamento. Quello che nel capitale non è capitale. Questo è il filo rosso della ricerca filosofica di Toni Negri: l’ordine sociale moderno, quello costruito attorno ai rapporti di produzione capitalistici, non può mai essere rappresentato come una macchina autoreferenziale, senza alterità, ma va sempre concepito come relazione, come incontro e scontro di forze, in sintesi: come rapporto sociale. Così Negri, nei suoi fondamentali studi sulla forma Stato, può mostrare come la mediazione novecentesca della forza lavoro nella costituzione “materiale”, non produce per nulla uno sviluppo lineare e progressivo: al contrario, più il lavoro si socializza all’interno dello Stato sociale, più si approfondisce la crisi e il conflitto tra la forma Stato e la crescita delle capacità e delle qualità produttive dei nuovi soggetti. Il Sessantotto e le lotte degli anni ’70 accelerano la crisi dello Stato sociale perché esprimono un livello di innovazione produttiva, e, allo stesso tempo, una decisiva trasformazione soggettiva che la mediazione statuale non è più capace di contenere. La tragedia, particolarmente evidente nel caso italiano, è che allo sviluppo di nuove forme della produzione e di nuove soggettività nessuno risponderà, da sinistra, se non con la repressione dei movimenti. Di qui la sconfitta durissima delle lotte.
La continua ricerca dell’autonomia e della soggettività che animano il rapporto sociale di capitale permette però a Negri di riaprire, anche nella durezza della sconfitta, nuove prospettive per la trasformazione. Mentre a sinistra si andrà affermando una lettura totalizzante della trasformazione neoliberale, Negri, al contrario, tornerà a tessere, dal carcere e dall’esilio, il filo del suo metodo: le nuove forme flessibili e modulari dell’organizzazione capitalista, con le corrispondenti nuove forme di governance globale, non possono essere lette come una macchina autoreferenziale. Sono invece da indagare in relazione alle nuove soggettività che si sono affermate dentro le trasformazioni della produzione, che il nuovo capitalismo globale cerca di mettere al lavoro, estendendo il processo di valorizzazione all’intera società e all’intera esistenza. L’analisi di Negri qui va completamente controcorrente rispetto alla più diffusa interpretazione, che legge la trasformazione neoliberale solo in termini di frammentazione del lavoro e dei soggetti. Intrecciando sempre più la sua analisi con quelle di Foucault e di Deleuze & Guattari, e approfondendo contemporaneamente con Spinoza un’ontologia che tiene insieme differenza e produzione di soggettività, Negri legge invece la nuova accumulazione flessibile globale come il tentativo di catturare un nuovo “sciame” di soggettività, che non si riconosce più nella tendenziale omogeneità del soggetto di classe prodotto dalla fabbrica fordista, ma fa della eterogeneità, della singolarità e, allo stesso tempo, della cooperazione le proprie caratteristiche fondamentali. Con la riflessione da Impero in poi, la globalizzazione è letta come uno spazio continuamente prodotto dalle lotte di questa nuova composizione moltitudinaria e dalla risposta dei dispositivi di comando e di valorizzazione.
Ancora una volta, chi non sa leggere nella nuova composizione soggettiva gli aspetti di potenzialità e di tendenziale autonomia, è condannato a non capire le nuove forme di lotta. E a rinchiudersi nell’illusione che le vecchie forme statuali e le tranquillizzanti case identitarie possano servire come difesa rispetto alla globalizzazione capitalista. Contro questi sguardi rivolti all’indietro, Negri ha continuato fino all’ultimo a contrapporre il proprio metodo dell’autonomia delle soggettività. E così ha continuato, sino alle ultime interviste, a indicare caparbiamente nei nuovi movimenti intersezionali globali, nel femminismo, nell’ecologismo, e nelle convergenze di questi con le lotte salariali e sul welfare, i segni della trasformazione incessante della lotta di classe. Sapendo che nessun comando, anche quello spietatamente fascista che minaccia sempre più i nostri regimi di guerra, può sopprimere l’autonomia: il problema resta saper comprendere fino in fondo la radicalità delle trasformazioni delle soggettività, per risolvere il perenne rompicapo delle forme organizzative che possono dar loro forza, espansività e capacità di far male al nemico.
Pubblicato su il Manifesto il 17 dicembre 2023 e da noi riproposto per gentile concessione dell’autore e del giornale (ringraziamo entrambi)