C’è troppo dolore nel mondo. C’è troppa sofferenza sul nostro pianeta. E questo si trasferisce nelle relazioni sociali e nei modi della convivenza. Il ritiro sociale o la violenza sono due maniere di rispondere a questa condizione di disperazione. Queste risposte non sono necessariamente presenti tra quanti vivono di più sui loro corpi tale sofferenza. Esse sono presenti nella società nel suo insieme, dunque si possono manifestare in tutte le aree della popolazione mondiale.
È da almeno tre decenni che le società non vengono difese. Nella fase della storia umana caratterizzata da precarietà lavorativa, moltiplicazione delle guerre, accentuazione delle disuguaglianze, avanzata del cambiamento climatico e accelerazione delle pandemie, le classi dirigente politiche ed economico-finanziarie non sono riuscite a trovare politiche che, appunto, difendessero la società, ne alimentassero i legami.
Il sociologo Karl Polanyi lo ha ben spiegato con riferimento all’affermazione della società capitalistica, caratterizzata dall’affermazione delle forze di mercato che tendono a disgregarne i legami alle quali si oppone la società con i tentativi di auto-difesa, attraverso la reciprocità, l’amicizia, la solidarietà, le lotte per ridurre dominio e sfruttamento. Successivamente, un altro sociologo, Pierre Bourdieu, ha analizzato gli effetti di scomposizione sociale e politica delle politiche e dell’ideologia neoliberiste che affermano il primato del mercato e dell’impresa su tutti gli altri aspetti della vita associata. In un testo del 1999 (Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista), Bourdieu scrisse parole profetiche. Eccole: “non si può barare con la legge della conservazione della violenza: ogni forma di violenza ha un costo; ad esempio, la violenza strutturale esercitata dai mercati finanziari sottoforma di licenziamenti, di precarietà, ecc. ha la sua contropartita in tempi più o meno lunghi, sotto forma di suicidi, di delinquenza, di criminalità, di droga, di alcolismo, di piccole o grandi violenze quotidiane”. Ecco, quei tempi più o meno lunghi sono il nostro presente. Li stiamo vivendo. Ci stiamo dentro. E non sappiamo come uscirne collettivamente, anche perché quella dimensione collettiva è stata attaccata dal dispiegamento di 30 anni di politiche di precarietà, guerra e sottovalutazione del cambiamento climatico. Non solo la precarietà, ma la violenza più in generale è stata normalizzata dentro questa grande notte. La mia generazione politica si è formata sui traccianti verdi nel cielo dell’Iraq nel 1991 e si è consolidata sulle foto del carcere di Abu Ghraib e i video da Guantanamo: è cresciuta confrontandosi con la violenza (di Stato) come forma relazionale legittima. E poi ha attraversato la precarietà. E ancora più profonda la stanno attraversando le generazioni venute dopo.
Nel frattempo, violenza e precarietà si sono globalizzate. Il mondo intero ha visto i suoi legami sociali soccombere di fronte alla disarticolazione imposta da finanza e mercati. Nel frattempo, le classi dirigenti non hanno costruito alternative alla tendenza dominante. Certo, i tentativi ci sono e continuano a esserci, ma devono confrontarsi con forze potenti – finanziarie e politico-militari – ma anche con gli effetti disgregativi che, nel frattempo, si sono prodotti dentro le società.
Chiunque voglia difendere la società, necessariamente insieme al resto del pianeta, sa cosa va fatto: va ricostruita la convinzione nel fatto che agire collettivamente ne vale la pena, fa stare meglio, fa vivere con maggiore felicità e benessere sé stessi e le persone intorno. Va ricostruita l’idea che il futuro non sia già scritto. Gli esperimenti ci sono stati negli ultimi due decenni, in parte sono stati sconfitti. Tuttavia, se tanti movimenti sociali ancora si propongono su questi temi nel mondo (penso, ad esempio, a La via Campesina, ai movimenti locali e transnazionali per la giustizia climatica, al movimento femminista, alle organizzazioni sindacali che difendono il lavoro, al dibattito all’interno delle religioni) vuol dire che l’istanza di auto-difesa della società continua a essere insopprimibile e a costruire nuovi mondi possibili.