Domani, sabato, con inizio alle ore 10, presso il Teatro dell’Opera Don Guanella di Miano/Scampia, promosso da “Ultimi-Associazione di legalità” fondata dal padre guanelliano don Aniello Manganiello, si terrà un convegno nel quale ci si interrogherà sulla effettiva, concreta possibilità di recupero dei giovani che vivono in zone di frontiera e di evidente degrado sociale. Discuteranno del tema “Violenza giovanile: oltre la repressione” il professore Luigi Caramiello, docente di Sociologia presso l’Università Federico II di Napoli, e la dottoressa Rita Romano, direttrice del carcere di Bellizzi Irpino. Dopo i saluti di don Giuseppe Venerito, Superiore dell’Opera Don Guanella, introdurrà i lavori il giornalista Andrea Manzi, presidente di “Ultimi”. Nel corso dell’incontro, moderato dal giornalista della Rai Vincenzo Perone, sarà proposta una testimonianza di Marco Pirone, scrittore e operatore di legalità, che racconterà il suo percorso di crescita e i giorni duri e difficili ma entusiasmanti del suo reinserimento sociale. Le conclusioni saranno tratte da don Aniello Manganiello, che annuncerà alcune iniziative che si svolgeranno, sempre a Scampia, a dicembre e all’inizio del nuovo anno. L’iniziativa tende a rilanciare un indispensabile progetto di recupero giovanile nelle aree assediate dalla criminalità, in un momento in cui si auspicano da più parti sterili politiche securitarie da parte degli organi dello Stato, probabilmente in qualche caso utili ma sicuramente non sufficienti a combattere il degrado di molte aree della Campania ancora occupate dai clan. Sarà un’occasione per rilanciare il programma di “Ultimi”, che più di dieci anni fa fu sperimentato con successo proprio a Scampia, come documentò il libro “Gesù è più forte della camorra” (Rizzoli, 2011) scritto da don Aniello Manganiello e da Andrea Manzi, dal quale è stato tratto uno spettacolo teatrale che da marzo prossimo rientrerà nei circuiti nazionali. Per gentile concessione degli autori, proponiamo un brano del libro che racconta alcune storie molto toccanti di giovani recuperati pienamente alla vita di comunità.
Se rivado con il pensiero ai miei primi periodi di Scampia, penso che una camorra così cruenta come quella che ho visto all’opera in questi ultimi sedici anni, e che tanti lutti e odissee ha imposto ai miei parrocchiani, non ha avuto affatto vita facile, non soltanto per i buoni sentimenti della gente e la forza dell’apostolato che si è opposta alla sua furia, ma anche per i cedimenti e le crisi che ha vissuto al proprio interno. Più il male è diventato insopportabile tanto più sono emerse conversioni convinte che hanno lasciato tracce profonde nella comunità.
Giuseppe Sarno, boss violento
Penso a Giuseppe Sarno, appartenente all’omonimo clan di Miano, fratello del più famoso Costantino che in un primo momento si era pentito. Era un boss molto violento. Il 27 dicembre 2001 fu scarcerato e spedito a casa. Gli imposero l’obbligo di firma, più volte al giorno.
Tramite il cognato, che era molto legato a me, due giorni dopo la scarcerazione mi invitò a casa sua perché aveva desiderio di farsi una chiacchierata, almeno così mi fece sapere. Ci andai con un po’ di timore e molta titubanza, perché quando mi trovo al cospetto di camorristi di rango ho sempre la preoccupazione di non riuscire a utilizzare il linguaggio e l’atteggiamento giusti per entrare in comunicazione con loro, capire il loro mondo, inquadrare la loro visione della vita. Occorrerebbe conoscere e condividere, per il tempo del confronto, la loro cultura della violenza e della prepotenza, radicata dentro di loro dall’infanzia. È importante comprendere in profondità le loro storie soprattutto infantili, che spesso rappresentano la genesi della loro attività criminale. Se non si condivide il loro piano espressivo, non sarà possibile creare un rapporto e rendersi utili.
Di Giuseppe Sarno sapevo soltanto una cosa, che era contento di incontrare il suo parroco. Nulla di più. Era troppo poco, ma non ne feci un dramma. Chiesi a Gesù di aiutarmi e andai.
Arrivai a casa sua e lui mi accolse con cortesia; mi offrì il caffè facendomi gli onori di casa, poi entrammo nella cameretta di uno dei suoi figli. E lì iniziò il nostro dialogo. Parlò più lui, per circa un’ora. Io prevalentemente ascoltai. Gli consentii di aprirsi, di esternare tutto quello che si portava dentro. Lo fissavo negli occhi. Aveva tratti marcati, era proprio il boss dalla proverbiale violenza di cui si parlava o, perlomeno, tale appariva anche a me.
La gente lo temeva, pensai, a ragion veduta. Era deciso e impulsivo, non aveva mezze misure. Man mano che i minuti passavano, però, fui colpito dal fatto di trovarmi di fronte a una persona capace di dialogare, di aprire il cuore e, quel che fu più importante, di condannare tutto quello aveva fatto di sbagliato durante la vita. Fu come se i suoi lineamenti aspri si fossero improvvisamente addolciti, donandogli una fisionomia diversa. Comparve ai miei occhi una mitezza insperata, e a un tratto Giuseppe mi sembrò un altro.
Attribuiva la responsabilità delle sue scelte ai genitori, che non avevano esercitato il loro ruolo di educatori. Non avevano seguito né lui né il fratello Costantino durante la loro infanzia, non si erano mai preoccupati se a scuola ci andavano oppure no. «La strada era la nostra famiglia e la nostra scuola, ed è lì, per strada, padre, che imparai a essere quello che sono adesso e che non voglio mai più essere» mi disse. Aggiunse che, proprio a supporto di questo suo convincimento, avrebbe voluto ancora parlarmi della sua scelta di allontanarsi per sempre dalla camorra e mi confidò che, attraverso i suoi avvocati, aveva intenzione di chiedere ai giudici di poter andare a vivere con la famiglia in Toscana, lontano da quel clima di violenza che ormai gli era diventato insopportabile.
Il 2 gennaio, verso le 21, dopo aver onorato l’obbligo di firma, stava andando a far visita a un amico. Era per strada con i figli e i nipoti. L’amico che doveva raggiungere abitava a cinquanta metri dalla sua abitazione. Giuseppe notò un’auto un po’ sospetta e, in gran fretta, risalì a casa per mettere in salvo i bambini che erano con lui. Poi scese di nuovo per verificare chi ci fosse in quell’auto. Dietro un camion erano già in agguato i sicari. In molti li videro, nessuno parlò.
Giuseppe Sarno fu ucciso con diversi colpi, quello al volto lo sfigurò. Era nato il 19 marzo 1955, non aveva ancora 47 anni.
Un volontario della parrocchia, che sapeva del mio incontro con lui avvenuto due o tre giorni prima, mi venne a chiamare subito. Ero impegnato in un incontro di formazione con i giovani fidanzati. Lasciai tutto e corsi via. Il corpo di Giuseppe era in una pozza di sangue di fronte all’isolato 10E del rione Don Guanella. Trovai già la polizia. Mi raccolsi in preghiera per alcuni momenti e poi mi toccò il compito della benedizione del corpo senza vita.
I funerali li celebrai nella cappella dell’ospedale Cardarelli, dove fu portata la salma per l’esame autoptico. Mi è rimasto il dispiacere di non averlo potuto incontrare di nuovo. Gli avrei proposto il sacramento della confessione per una riconciliazione totale con Dio e per una presa di coscienza di tutti i suoi sbagli e dei suoi peccati. Pensai con rammarico al giorno dell’incontro e al fatto di non avergli chiesto di confessarsi allora.
Anche quest’uomo per me è una vittima della sottocultura, un limite che riguarda, lo ripeto, camorristi e gente comune. Chi ha sbagliato viene considerato incapace di redimersi. Gli irrecuperabili, invece, non esistono. Giuseppe Sarno fu ucciso dalla superficialità di giudizio che fece ritenere ai camorristi di un clan avversario che egli volesse andar via da Scampia non per una scelta di vita, ma soltanto per poter allargare gli affari criminali. Cambiare vita è per molti un’assurdità, un obiettivo al di fuori della realtà, quindi non credibile. Invece, Giuseppe era davvero intimamente pentito, e da sacerdote mi sento di poterlo affermare con sicurezza, perché colsi l’autenticità delle sue parole, che mi sono rimaste nel cuore e mi hanno arricchito. Quell’omicidio fu anche una grave sconfitta per l’amministrazione della giustizia, che lasciò indifeso un uomo che avrebbe dovuto essere protetto. Il fratello Costantino, infatti, si era pentito e la vendetta trasversale poteva essere prevista. Il risultato fu che Costantino non parlò più. Probabilmente, se avesse continuato a farlo, altri malavitosi avrebbero potuto essere assicurati alla giustizia.
Antonio R., terrore degli orefici
Un altro percorso, forse di ravvedimento più che di conversione, conclusosi per fortuna con un esito diverso rispetto alla vicenda del povero Giuseppe, riguarda Antonio R., sposato con quattro figli.
Lo conobbi negli ultimi mesi del 1994.
Nel nostro primo incontro mi parlò nei dettagli del suo “lavoro”. Si descrisse come l’Arsenio Lupin delle oreficerie del centro Italia. Vari colpi, tutti andati a buon fine e senza mai fare uso di armi. Lo guardai e non gli dissi nulla. Anche quella volta ascoltai e basta. Lo incrociai il giorno di Natale del 1994: aveva accompagnato in parrocchia il padre che stava molto male. Vennero per la messa. Nemmeno gli parlai. Lo rividi altre volte in chiesa perché si inserì tra i collaboratori del progetto “Il binario della solidarietà”, offrendo gratuitamente le vaschette per il cibo da portare ai senza fissa dimora della stazione centrale di Napoli. Dopo qualche tempo, rifiutai le vaschette gratis perché mi sembrava doveroso pagarle. E glielo dissi. Nel giugno del 1995 mi assicurò che aveva chiuso definitivamente con quella sua vita pericolosa e si presentò in chiesa per suonare l’organo nella messa di Natale.
In effetti, per Antonio più che di vera e propria conversione si è trattato di un’acquisizione di responsabilità. Egli infatti è stato sempre vicino alla parrocchia, per cui il recupero, a differenza degli altri giovani che ho seguito, è stato meno difficile. C’erano nella sua esistenza “fughe” nella trasgressione e nel guadagno facile che gli garantivano emozioni e ricchezza, e noi intervenimmo su queste modalità di vita, suscitando i buoni sentimenti che Antonio aveva nel suo cuore senza esserne più consapevole.
Purtroppo per lui, nel settembre del 1996 si aprirono le porte del carcere di Poggioreale per una condanna passata in giudicato. Il percorso di ravvedimento tuttavia andò avanti. Rimase lì per tre mesi, durante i quali lavorò presso la segreteria della casa circondariale. Gli fu affidata quella mansione perché era dotato di un’intelligenza non comune e aveva una buona cultura di base. Aveva conseguito con profitto il diploma di scuola superiore, si aggiornava continuamente e leggeva molti libri di narrativa e saggistica.
Alla vigilia di Natale del 1996 fu trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove rimase fino al maggio del 1998. Sentivo di volergli molto bene. Otto mesi prima, d’intesa con la moglie, avevo chiesto un incontro con il giudice di sorveglianza, il quale acconsentì a che Antonio fosse “affidato a se stesso” e destinato per un anno alla mia parrocchia come volontario. Dopo quindici anni è ancora lì, in chiesa e nell’istituto, un pilastro della comunità parrocchiale. Si guadagna onestamente da vivere, vendendo contenitori di carta e di alluminio per alimenti. La moglie collabora alla gestione familiare, facendo la domestica presso alcune famiglie del Vomero. Sono persone oneste e insegnano tante cose agli altri.
Altri minorenni a me affidati
Nel corso dei miei anni a Scampia ho ottenuto numerosi affidamenti di minorenni e adulti da parte del Tribunale di Napoli, una funzione che in genere è sostitutiva degli arresti domiciliari.
Questo compito l’ho sempre inteso come una possibilità di restituire alla società civile, dopo l’espiazione e un’adeguata preparazione, uomini che hanno avuto problemi di convivenza e di relazione con gli altri. Per i minori, però, l’affidamento non era un servizio sostitutivo degli arresti, ma un percorso individuato dal magistrato come accompagnamento educativo, attraverso l’incontro personale con me e un lavoro manuale da svolgere alle dipendenze della parrocchia. Mi sono inventato, in proposito, mille mestieri per i ragazzi da reinserire nella società. Hanno fatto così gli imbianchini, i muratori, gli uomini delle pulizie, i manutentori delle reti del campo di calcio e spesso, per responsabilizzarli, ho delegato loro funzioni di controllo per i gruppi in oratorio. Ricordo Antonio, Rosario, Genny, Pietro, Ernesto, Ciro. Sono solo alcuni dei giovani e degli adulti che, in genere dopo il carcere, o comunque dopo un reato, hanno con diviso con me un percorso che mi ha arricchito come prete e come educatore.
Marco Pirone, la droga era tutto
Altra conversione che mi ha segnato in maniera assai significativa, anche perché riguarda molto da vicino la piaga della diffusione della droga a Scampia, è quella di Marco Pirone.
Lo vidi per la prima volta una domenica, durante la celebrazione eucaristica delle 11.30. Era insieme con la moglie. Seppi che si erano trasferiti da poco. Provenivano da Bolzano e abitavano nell’isolato 13A del rione Don Guanella. A prima vista Marco mi era sembrato un giovane pulito, normale. Mai avrei immaginato che fosse un drogato e che il suo matrimonio stesse andando a rotoli.
Finita la celebrazione li salutai cordialmente e li invitai a tornare ancora in parrocchia perché potesse nascere tra noi un’amicizia più salda. Erano venuti in chiesa con una catechista che abitava nel loro stesso stabile. Fu proprio attraverso di lei che la moglie di Marco, Lia, in attesa di un secondo figlio, mi fece sapere di volermi incontrare.
Mi resi subito disponibile e scoprii che Lia era una donna disperata perché Marco era tossicodipendente da molto tempo. Era già stato in una comunità di Avellino, ma questa permanenza non aveva sortito alcun risultato. Marco aveva continuato a fare uso di stupefacenti, minando sempre più la sua esistenza e anche le fondamenta del suo matrimonio. Questo fu il contenuto della mia prima conversazione con Lia, che mi chiese di aiutare il marito a uscire dal tunnel. Mi attivai subito presso una comunità per la cura dei tossicodipendenti dell’Opera Don Guanella di Cerano, in provincia di Novara, e incontrai nuovamente Marco presso la sua abitazione. Con molta crudezza e realismo, gli feci presente che l’unica possibilità che potevo offrirgli era quella di fargli lasciare la famiglia per trascorrere un tempo idoneo al suo pieno recupero in una struttura adeguata. Marco accettò, probabilmente il mio interesse immediato aveva fatto breccia nella sua sensibilità. Non escludo, però, che Marco fosse stato colpito dal mio atteggiamento a un tempo deciso e paterno. Stabilimmo il giorno della partenza, d’accordo con il sacerdote guanelliano della comunità.
Era il gennaio 2006. Partimmo insieme per Novara, io e lui, e il viaggio in treno fu una vera odissea. Marco pianse per tutto il tempo. Da Bologna a Milano impiegammo quasi quattro ore per un’abbondante nevicata che aveva colpito tutta la pianura padana e, in particolare, Milano. Arrivammo alle due di notte e ci riparammo nella sala d’aspetto della stazione centrale, gremita fino all’inverosimile perché la maggior parte dei treni in partenza era stata soppressa a causa delle avverse condizioni atmosferiche.
Soffrimmo tantissimo il freddo e la mattina, alle sei, le Ferrovie riuscirono ad attivare il servizio per Novara. Saliti in treno, a causa della stanchezza e della forzata veglia, prendemmo sonno ma, al risveglio, ci trovammo a Settimo Torinese. Scendemmo e aspettammo una nuova corsa per Novara, dove finalmente giungemmo alle undici del mattino. Telefonai in comunità e, dopo circa un’ora, arrivò l’operatore che prese in consegna Marco. Non andai con loro presso la comunità perché ritenni che il mio compito si fosse esaurito.
Ci salutammo e ripresi il treno per Milano. Marco rimase solo tre mesi a Novara. La scelta di svoltare si era già manifestata con la decisione di andare in comunità. Aveva trovato in me una persona di cui fidarsi, che non lo aveva giudicato né ritenuto irrecuperabile. In molti, dopo il tentativo andato a vuoto ad Avellino, avevano preso le distanze da lui, convinti che non vi fossero possibilità di recupero.
Marco mi scriveva da Novara, raccomandandomi di stare vicino alla famiglia, soprattutto al figlioletto, cosa che io ho sempre fatto. Volutamente, però, non mantenni i rapporti con lui nel periodo della comunità per non distrarlo dagli operatori, gli unici ai quali avrebbe dovuto affidarsi. Tuttavia, mi informavo proprio da loro sullo svolgimento del programma di recupero. La mia discrezione nel seguire questi ragazzi risponde anche a un’altra strategia educativa: impedire che diventino “aniellodipendenti” e non sentano quindi di continuo il mio fiato sul collo.
Non avrei voluto che Marco lasciasse la comunità dopo un tempo così breve, ma lui fu irremovibile perché si sentiva sufficientemente forte per affrontare la vita e percorrere le strade di Scampia, piene di offerte e “seduzioni”, sapendo dire no alle tentazioni. Inoltre, voleva essere presente in famiglia al momento della nascita del secondo figlioletto, Claudio, venuto al mondo il 25 maggio 2006.
Marco ha avuto ragione. Sono trascorsi più di dieci anni da quel viaggio avventuroso in mezzo alla neve e in tutto questo tempo ha dato prova di essere guarito totalmente e di essersi adoperato per il miglioramento della sua vita matrimoniale, che aveva subito negli anni precedenti troppi attacchi. Una delle conseguenze della tossicodipendenza, infatti, è la distruzione della stabilità familiare. Nel frattempo, Marco ha trovato un lavoro presso la ferrovia cumana, dove attualmente è responsabile di un passaggio a livello pedonale.
I recuperi dalla tossicodipendenza sono possibili se, dopo il percorso di rinascita, interviene un sostegno costante fatto di amicizia, ascolto, solidarietà e amore fraterno. Ma non trascurerei l’importanza fondamentale del lavoro, che dà dignità e contribuisce a tessere relazioni equilibrate, armoniche, autentiche all’interno della famiglia.
Nella storia di Marco ritrovo il valore educativo e di redenzione, tante volte sottolineato, del Vangelo e del lavoro combinati insieme. Sono le uniche due possibilità di rinascita non solo dei singoli cittadini, ma anche dell’intero corpo sociale di Napoli.
Ho continuato a essere fratello e padre di questa giovane coppia di coniugi e non ho mai mancato di proporre a Marco il coinvolgimento nell’attività sportiva dell’oratorio, soprattutto quando notavo difficoltà nei suoi rapporti familiari. Lui ha sempre accettato di collaborare, rendendosi conto di quanto sia importante lo sport per insegnare ai ragazzi il sano impiego del tempo libero, lontano da tutto ciò che può distruggere la loro vita, in particolare la droga. È infatti un apprezzato allenatore di calcio del nostro centro.
Tonino Torre, “maestro” di rapine
Tra le conversioni alle quali il Signore mi ha dato la gioia di contribuire c’è quella di Tonino Torre, forse per me la più inattesa.
Tonino era un boss molto ricco, non lesinava spese, girava con auto di gran lusso, Suv, Bmw, Porsche, Ferrari. Si circondava di decine di giovani ai quali dava molte opportunità di “lavoro”.
Ciro Corona, presidente di (R)Esistenza, associazione di lotta all’illegalità e alla cultura camorristica, ne parla così nel libro Scampia trip (Ad est dell’equatore, 2010): “Tonino era una sorta di leggenda, una persona degna di rispetto a priori, che incuteva paura solo a nominarlo e in molti sono cresciuti all’ombra del suo nome… Ma dove li prendeva Tonino tutti i soldi che aveva? Era un grande rapinatore di banche, gioiellerie, uffici postali e aveva messo su la più efficace macchina di corruzione che investiva centinaia di milioni di lire in una sola ora per vedere quintuplicato l’investimento in meno di venti minuti. Corrompeva guardie, banchieri con la sua banda del buco”.
Tonino fu arrestato per una delle sue rapine. Conoscevo la moglie e alcuni figli, tra i quali Gennaro, legato a me sin dai tempi del mio arrivo a Scampia. Mi era capitato, quindi, più di una volta di far visita ai familiari di Tonino Torre. Con loro avevo parlato spesso e, in qualche circostanza, avevo trovato anche lui a casa. L’impressione che ne avevo ricavato era che non vi fosse alcuna possibilità di un suo cambia mento di vita.
Dopo l’arresto, con mio grande stupore, attraverso la moglie, Tonino mi chiese di poter avere una Bibbia nella sua cella di Poggioreale. La richiesta mi fu formulata in maniera ancora più strana. Tonino, mi disse la moglie, era rimasto colpito da alcune mie omelie in cui prendevo posizione con tro la camorra e la violenza in genere. Gliene avevano parlato alcuni detenuti, conosciuti in carcere.
Gli mandai la Bibbia con una piccola dedica: “Caro Tonino, fanne buon uso. Con affetto, Aniello”. Lui ne fece buon uso, come avevo auspicato, stravolgendo radicalmente la sua vita.
I percorsi di conversione sono impegnativi, e spesso è necessaria tutta l’esistenza per dare corpo e continuità al perfezionamento personale. Per realizzare una conversione profonda bisogna inoltre fare tante volte i conti con le fragilità che si ripresentano e con la virulenza delle tentazioni che ritardano e rallentano il cammino. È stato così anche per Tonino, nei primi tempi.
Oggi posso affermare, alla luce di quest’esperienza di Dio, costruita attraverso una forte vita di preghiera e una singolare familiarità con i sacramenti, che Tonino ha raggiunto una solidità spirituale invidiabile. A tutto ciò voglio aggiungere una capacità sorprendente di accontentarsi dell’essenziale, per la vita sua e della famiglia, attraverso lavori umili e sempre onesti.
Tonino non manca mai alla messa della domenica e tantissime volte, anche nei giorni feriali, inizia la sua giornata operosa alle 6.45, in ginocchio per lungo tempo davanti al tabernacolo dove è custodito Cristo eucaristia. In questi anni ho invitato Tonino tantissime volte in trasmissioni televisive e in tavole rotonde, affinché raccontasse il suo percorso di conversione. Posso dire con certezza che il suo vissuto, le sue parole, la passione con cui racconta lasciano veramente un segno profondo in chi lo ascolta.