Sono quasi 50 mila i morti nel Mediterraneo che le agenzie delle Nazioni Unite hanno contato dal 2003 ad oggi. A questi bisogna aggiungere i morti nel deserto e quelli nei campi di detenzione in Libia, oltre a quelli nei Balcani e a tutte le sofferenze patite nelle isole greche, in Turchia, in Tunisia dalle persone che non possono lasciare quei territori a causa delle decisioni politiche dell’Unione Europea.
Siamo di fronte a un fallimento generale: un fallimento della politica migratoria europea e degli Stati nazionali, compreso quello italiano, così come a un fallimento etico e culturale delle nostre società, capaci di dare accoglienza a milioni di persone in fuga dall’Ucraina, ma incapaci di fare altrettanto con chi proviene da altre guerre (come dalla Siria e dall’Afghanistan) o dittature (come Egitto e Tunisia) o altre situazioni molto difficile dal punto di vista economico ed ecologico (come Nigeria e paesi del corno d’Africa). Questo fallimento viene attestato dai numeri dei morti, ma anche dal fatto che, nel mondo, l’ampia maggioranza delle persone in cerca di protezione non vivono in Europa, ma nei paesi limitrofi e, in ogni caso, in paesi con livelli di reddito pro capite molto più bassi di quelli europei: si pensi che su circa 108 milioni di persone in cerca di protezione, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) del 2022, 62,5 milioni sono sfollati interni (persone costrette a lasciare le loro dimore e rifugiate nel paese di cui sono cittadine), 29,4 milioni sono rifugiati internazionali, 5,4 milioni sono richiedenti asilo. Il 76% di queste persone vive in un paese con redditi mondiali bassi o mesi e solo il 24% in paesi – come quelli europei – con redditi alti. Il 70% i rifugiati e richiedenti asilo vive in uno Stato confinante. I 5 paesi al mondo che ospitano il maggior numero (a livello assoluto) di rifugiati e richiedenti asilo sono: Turchia (3,6 milion), Iran (3,4 milioni), Colombia (2,5 milioni), Germania (2,1 milioni), Pakistan (1,7 milioni).
Ci rendiamo conto, in breve, che l’Europa è interessata poco, se confrontata con altre parti del mondo, dalla presenza di stranieri in cerca di protezione. Eppure, la percezione e il discorso politico dicono altro: ci parlano di invasione, emergenza migranti, arrivi senza sosta e, quindi, necessità di blocco, stop, difesa dei confini nazionali. Eppure, dopo anni e anni che questo dispositivo è stato azionato (paura dell’invasione -risposte di blocco), nulla è cambiato in meglio: i morti sono continuati, gli arrivi attraverso rotte pericolose non si sono interrotti, le grida dei politici e di una parte della stampa all’invasione non si sono fermate.
Di fronte a questo palese fallimento, la politica italiana ed europea delle migrazioni non cambia: continua a proporre politiche di blocco, attraverso gli accordi con i paesi africani, e ipotesi di sostegno allo sviluppo economico dei paesi di emigrazione, come se davvero le persone si fermassero nelle loro volontà di mobilità nella speranza di un po’ di crescita economica in futuro. Non funziona così. Le migrazioni non seguono queste logiche, per il fatto che esse sono fatte da molteplici logiche, da una pluralità di motivazioni e di decisioni non sempre tutte trasparenti e dicibili.
Le migrazioni sono sempre molto di più di questioni economiche, lavorative o familiari: sono fatti complessi, che interessi la vita delle persone e dei loro affetti e non semplicemente il loro destino economico. Mi rendo conto che – abituati ad anni di discorsi pubblici che hanno ridotto i processi migratori a una minaccia o a un fatto umanitario verso cui mostrare pietà – è difficile pensare alla complessità dei processi migratori. Tuttavia, è con questo che il nostro mondo si confronta e anche la costruzione di processi di apartheid non riescono a fermarne la dinamica, la forza, la caparbietà: in un mondo in movimento – anche per via dei cambiamenti climatici e ambientali – la mobilità spaziale delle persone è un fatto costitutivo. Certo, non tutti migrano (lo fa a livello internazionale meno del 3% della popolazione mondiale, in realtà), ma in tanti sono interni a questa prospettiva, come protagonisti diretti o indiretti (ad esempio, amici o familiari). Di fronte a questa complessità e a questo scarto tra risultati attesi e disastri conseguiti (ad esempio, in termini di morti nel Mediterraneo), la politica migratoria realizzata e proposta in Italia e Europa è davvero poca cosa, è una riduzione che non può affrontare il fenomeno in corso: alla ricchezza delle migrazioni risponde la miseria della politica migratoria. Se non cambia radicalmente – con la concessioni dei visti, prima di tutto, e il superamento dell’idea del richiedente asilo come minaccia e dell’immigrato come ladro di risorse pubbliche o merce da sfruttare – questa politica non può che continuare ad alimentare nuove morti e nuove sofferenze.