Il binomio inscindibile “architettura e democrazia” sintetizza quello che per Settis, dal quale riprendo il titolo del libro apparso per i tipi di Einaudi nel 2017, è il tendere a tenere insieme “cittadinanza ed etica dell’architetto”.
È stato, certamente, questo il piano che, da decenni, ha intrecciato e intreccia le numerosissime esperienze di Franco Purini sia del teorico, dell’attento studioso del pensiero storico critico dell’architettura, ma anche dell’arte contemporanea, che ha fatto da fondamenta alla sua decennale attività di docente, sia del progettista. Esperienza, che ha come baricentro la città, intesa quale corpo organico, ossia ordito di una trama di luoghi che ne testimoniano la sua identità e, al tempo stesso, spazio in divenire di progettualità, quindi continuum di realtà, di realismi e di immaginazioni che fanno della città, sosteneva Hillman, “la più grande tra le opere d’arte umane” perché essa appartiene al “regno dell’immaginazione”.
È questo il fil rouge che tiene insieme le scritture e i disegni, ordinati da Francesco Santioli nel volume Percorsi erratici e parziali sull’architettura (TerreBlu, Caserta 2022, pp. 186, ripr. in b/n).
Santioli è stato allievo, negli anni della mia direzione, della Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici dell’Università di Siena e del quale Purini è stato relatore della tesi di diploma. Il libro raccoglie gli scritti e i disegni, seguendo una cronologia che, dagli ultimi decenni del secolo scorso, arriva ai nostri giorni. Sono testimonianze dell’impegno etico, dichiarato dall’autore, quale necessità esistenziale di identità, dunque, richiamando il pensiero di Lina Bo Bardi, citato da Settis, un’esperienza che fa sua la “coscienza collettiva dell’architettura”.
Emerge, in particolare, quando l’attenzione focalizza temi quali arte-città-territorio-sociale, che hanno animato ed animano il vivace dibattito in questo primo quarto del XXI secolo, la necessità dell’autore di dar senso al concetto che racchiude il termine progetto. Per esempio, comprendere l’opera d’arte, in relazione al museo, alle strutture conservative ma, io direi, anche al collezionismo privato – riassunti nel termine ‘custode’ – oppure sulla relazione tra l’architettura e la libertà, che trova riscontro nel concetto di democrazia e come essenza dell’immaginazione, alla quale, nell’inteso testo dedicato al disegno, restituisce la sua impronta umanistica: “la mente si fa mano – scrive Purini seguendo un intuito di Valéry – e la mano un organo che pensa”.
Quella di Purini è quindi una visione umanistica, che tiene insieme il progetto e la vita della città, nella quale convivono le preesistenze (la storia si fa esperienza concreta) e le necessità di rigenerare il presente (il futuro come tempo immaginato). È nel saggio Tempo e architettura, però, che tale visione trova una sintesi e lo fa, ordinando punti di riflessione sul tempo, “senza alcuna pretesa – è quanto si legge – di formulare su di esso definizioni esaurienti […]”; ma, è nella chiusa che egli rende esplicito il suo pensiero: “L’architettura può durare molto, anche millenni, ma non può essere eterna. Gran parte dell’idea di rovina nella letteratura, nella pittura e nella stessa architettura esprime l’inevitabilità della fine dell’edificio come metafora della transitorietà della condizione umana. Se è senz’altro possibile pensare l’immortalità, lo è solo da semplici mortali.”.
Meditare sul tempo e, propriamente sul tempo che ha vissuto e vive la città, è il tema che, qualche anno fa, ho posto quale focus nell’introduzione al mio La città di Atlantide. Arte ambientale, processi di democratizzazione e ornamento urbano, apparso per i tipi di Meltemi Edizioni.
Il tempo ci spinge a riflettere sul presente e sulle possibili prospettive che disegnano la città e il suo sporgersi verso il futuro. Un futuro, che l’arte e l’architettura hanno come loro destino, quale “espressione – osserva Augé – della solidarietà essenziale che unisce individuo e società”. È ciò che fa immaginare la città, dai piccoli centri alle metropoli, come un’opera organica di un progetto che la storia ci ha consegnato. In fondo, è dar voce a quel sistema, scriveva Purini in Comporre l’architettura (Laterza, 2000), “di previsione di una serie di azioni future, volte alla produzione di un evento – ad esempio un viaggio, un incontro, lo schema di una legge [aggiungerei all’elenco, un libro] –, una trasformazione dell’ambiente fisico, di oggetti o di famiglie di oggetti. Qualsiasi impresa umana, in altre parole, necessita di un progetto”.
Le scritture qui raccolte hanno lo sguardo proteso oltre l’esercizio dell’architettura e dalle quali affiora, con chiarezza, l’imperativo che tiene insieme l’intera sua esperienza, intesa nell’estensione del termine, e il contesto nel quale essa si è calata e si cala, dichiarando ad alta voce la volontà di essere “sempre se stessi”. Aggiungendo, però, avverte Purini di “esserlo in ogni diverso periodo che si vive, con la conseguenza che le nostre certezze debbono ogni volta essere verificate, riformulate e riconfermate”.