Tutto (o quasi) è cominciato con il calcio: troppi giornalisti e conseguente impossibilità di garantire interviste singole botta e risposta – si sono scusati negli anni i solerti uffici stampa. E il giornalista sportivo, figura romantica, amico dei calciatori, allenatori e dirigenti, che probabilmente ha contribuito allo storico successo della stampa sportiva in Italia, si è trasformato in un burocrate che deve “passare” i comunicati stampa o sistemare le interviste preconfezionate dagli uffici comunicazione delle società. Tutte uguali nel contenuto con lievi variazioni di stile. Dal nobile proposito di informare e di raccontare i dietro le quinte o qualcosa in più ai lettori, si passa allo scontato megafono di una comunicazione globale che oramai non fa più distinzioni tra il flusso informativo e quello web-social. Un cambiamento tanto radicato che un’intervista autentica ed esclusiva oggi diventa un evento.
Per fortuna c’è chi non si ferma e, di fronte a una crescita esponenziale di informazioni rapide, immediate e disintermediate, punta sull’approfondimento, sui retroscena, sull’interpretazione e su tutto quanto non sia omologazione.
Il dato certo è che chi fa comunicazione oramai preferisce la disintermediazione: c’è la scusa di volersi rivolgere direttamente al pubblico che copre il rischio zero di un’intervista o una notizia preconfezionata.
Insomma, la comunicazione negli anni ha scavalcato e fagocitato l’informazione con la scusa dei numeri: troppi giornalisti, troppi accrediti, troppe richieste… Situazioni difficili da gestire se non con una comunicazione che consegna “pacchetti preconfezionati, chiavi in mano” pur di garantire l’informazione necessaria ad andare avanti. Già, ma l’informazione perennemente in crisi ha bisogno solo di tirare a campare?
Dallo sport all’informazione generalista il passo è breve. La tendenza della disintermediazione oramai spopola anche in politica. Una prova? L’intervista “collettiva” che Giorgia Meloni ha rilasciato alla vigilia di Ferragosto a Corriere della Sera, Repubblica e La Stampa: tre inviati a Ceglie Messapica, che si sono collegati telefonicamente con il premier ponendole domande che i giornalisti avevano concordato in anticipo. Tre interviste diverse alla premier pubblicate su quotidiani diversi, ma ovviamente con contenuti uguali. Poco importa se gli studiosi, quando si tira in ballo la crisi dell’editoria, evidenziano come uno dei problemi principali sia quello dei giornali fotocopia: informazione preconfezionata, megafono del palazzo, autoreferenziale e spesso lontana dalla realtà. Meloni, nella gestione delle sue attività di comunicazione, tende chiaramente alla disintermediazione: “gli appunti di Giorgia” (le dirette Facebook a senso unico sugli atti del governo) ne sono una prova evidente. All’inizio del mese di agosto il comitato di redazione di Rainews24 aveva duramente protestato per la messa in onda di 27 minuti di “monologo” di Meloni – un filmato registrato e premontato mascherato da diretta – senza alcuna forma di intermediazione giornalistica né contraddittorio. E forse, per spiegare lo stile comunicativo, non è neppure il caso di tirare nuovamente in ballo la storia dei cronisti chiusi in treno (immagini da Palazzo Chigi e nessuna possibilità di fare domande) in occasione dell’inaugurazione della tratta dell’alta velocità Roma-Pompei. C’è chi è pronto a tirare in ballo il ricordo della propaganda esercitata principalmente a mezzo veline, ma è il caso di precisare che la disintermediazione a cui assistiamo appare sempre più vicina a una “de-medializzazione” (per citare il filosofo Byung-Chul Han) in cui il giornalista sembra sempre più una figura anacronistica e superflua: al massimo gli si consente di scrivere con stile diverso contenuti preconfezionati o di porre domande concordate.
Se ci mettiamo dal lato della comunicazione, si tratta di un lavoro perfetto e di un sistema efficiente; dal punto di vista dell’informazione un po’ meno: i giornalisti veramente possono accontentarsi di essere solo megafono della comunicazione?