In un romanzo in cui una maestra, di nome Silvia, al termine di un sogno agitato, crivellato di incubi, si sente un «fagotto appeso alla vita per un picciolo striminzito che potrebbe anche essere un cappio», mentre una sua alunna, Giovanna, «lenta a scuola», e lettrice di fotoromanzi, finendo con il convincersi, sulla scia di fatui esempi, che diventare grande sia una «cosa eccitante», si esibisce in una «specie di caricatura», è subito chiaro il duplice vettore della costruzione narrativa: l’inserimento dello straordinario, del metafisico, volto a trasformare la visione del mondo nella sua manifestazione più mistificata e indecifrabile e la marcata pressione di sequenze della realtà anche le più vicine e anonime nel loro riaffacciarsi in svariate e spesso ostili forme. Tornare dal bosco (Marsilio, p. 187) di Maddalena Vaglio Tanet è un racconto dalla potente forza immaginifica, pronta a fronteggiare la cronaca spietata di una stagione uscita dalla guerra, dilaniata da inquietudini profonde, aspre manifestazioni ideologiche, esodi massicci dai borghi e dalle valli, e follie e un aquilone di sogni disorientati. La pietrificazione di alcune circostanze per necessità di fornire in modo perentorio utili notizie sul quadrante di un’epoca turbinosa come quella degli anni Settanta, non impedisce all’autrice di imboccare le vie dell’imprevedibile occhieggiante dalla violenza di un’azione, e di giostrare l’intrico degli eventi puntando sulle loro infinite scacchiere , soprattutto quando le trame sembrano essenzializzarsi e chiudersi in limitati spazi, proprio per meglio catturare un mistero in cui perdersi, ma con una luce che brilla in fondo al tunnel.
Si vanno delineando, nel frattempo, un episodio romanzesco dalle tinte drammatiche e qualche zona intermedia che serve a sospingere la riflessione verso lo sguardo su un mondo agreste incatenato ad antichi riti, un po’ ciarliero e un po’ silenzioso, desertificato ma echeggiante del lavoro ancestrale, minacciato da un’ incombente trasformazione e osservato anche come «storia da libro» e insieme come richiamo, nella figura della maestra, a una lontana vicenda di una parente della scrittrice (come si apprende dalla Nota conclusiva) che non ha mai «smesso di interpellarla». Governare gli spazi fra realtà e finzione comporta l’uso di una maggiore visibilità attribuita agli elementi fisici e alle diffuse scenografie, là dove incominciano a rilasciare i tratti più duri ed esposti, e la loro proiezione fantastica si ancora all’esercizio mobile di una considerazione o scivola nelle curve delle vicende. Anche i dialoghi sovente si sciolgono dal loro serrato intreccio trasferendosi in ondulazioni narrative più che tradursi nello scambio naturale di battute, opinioni, confronti. Preme il richiamo di un bisogno di trovare chiarezza nella flessione e, di modellare psicologie nel concavo visibilio della comunità,
Un evento «irriducibile», «inspiegabile, opaco», il suicidio di Giovanna, che si getta dalla finestra nel sottostante torrente, convoca una serie di interrogativi, a partire da quelle «allusioni sparse», da «frammenti di conversazioni», servizi giornalistici (di cui si legge in appendice),e da quella sinfonica musica aspra, come partecipe, dolente e copiosa descrizione del paesaggio montano che lambisce o si insinua, sovrasta o si esilia in un dettaglio, in un’analisi capillare, si riduce durante la galaverna in un «vetro vegetale», svaria dal verde dei campi allo straripare selvaggio dei rovi, dai boschi fitti e brulicanti di minime vie alle serene facciate in stile piemontese delle case, al «sentore di neve» anche in piena estate. E intanto, il suicidio di Giovanna è il segnale oscuro stampato sulla scomparsa volontaria della maestra che si inoltra nel bosco rifugiandosi sfinita in un capanno. La tortura il sospetto di aver causato con i suoi giusti rimproveri il fatale gesto della ragazza. Un segnale funesto serpeggia nella quieta routine del villaggio, le cose assumono una vitalità strana, ombre si stagliano dietro ogni aspetto rigido, scivolano dietro altre ombre, il posto vuoto di Giovanna nell’aula è una «botola aperta», lo stupore corre sui volti dei bambini piangenti, serpeggiando tra la gente smarrita, ansiosa, in cerca della verità e con la speranza di non trovarla.
Dal coro si leva Martino, venuto dalla città e attento a non forare la «bolla di immagini torinesi», il quale d’un tratto ha l’idea di perlustrare il bosco ingaggiando con le piante e i piccoli esseri viventi fantasiosi duelli. Dalla sua fantasia lo «sbalza fuori» la scoperta della maestra,, «sudicia e semisvenuta» e serrata al suo «guscio» di stordimento. «Un fardello e un risarcimento», quella scoperta rappresenta per Martino il potere di una decisione. A casa ,mentre si addormenta, il bosco torna a essere «quello delle fiabe».