È estate piena e i napoletani, ieri come oggi, approfittano sia della pescosità del mare, sia delle messi della campagna. Il termine Campania Felix, almeno una volta non era fallace. Rispondeva a verità. Napoli è letteralmente circondata dal mare a oriente, ma ad occidente, non c’è tanta terra, ma c’è tanta terra buona. Dovette essere questo uno dei motivi per i quali gli antichi romani scelsero Napoli e il suo circondario, fino a Pompei e a Capua, come residenza di gente ricca e di grandi intellettuali come Virgilio, i Plinii, Cicerone, Strabone per citare soltanto alcuni personaggi, oltre al suocero di Cesare, Tiberio e Nerone. È proprio nelle appendici di Napoli che si celebra l’irripetibile cena di Trimalchione (sic).
Il mare produce in abbondanza: alici, sarde, cefali e cefalotti, rombi, aguglie reali e pesci bandiera lunghi e rilucenti come spade di guerrieri, oltre a polpi di scoglio e a polipi e frutti di mare in quantità. Ma questa volta occupiamoci dell’orto. Celebri gli orti di Villanova e del Vomero produttori di pomodorini piccoli che, messi controluce, hanno all’interno alberature di velieri e che scagliati contro qualcuno hanno la possanza di sassi, di cavolfiori, finocchi d’inverno e, d’estate, di peperoni e peperoncini d’ogni forma.
Si tratta di quei peperoni che rendono festose le “apparate” degli erbivendoli e ogni casa. Rossi, versi, violacei, viola con strappi neri, rossi con striature di giallo e gialli con striature bluastre. Questa pianta erbacea delle solanacee si presta in mille modi a diventare cibo. Tanto per cominciare, si può mangiare crudo, ridotto a piccole fette o a dadini con sale e spremuta di aceto o di limone. Ma può diventare anche pranzo sostanzioso e rendere un pranzo ai più alti livelli.
Scelti i più duri e i più grossi, si arrostiscano con cura per non farli spaccare; si spellino con garbo; se ne tolga il torsolo e i semi, aiutandosi con un coltellino da manovrare come un ferro chirurgico e in quella bocca e in quel “sacchetto” si deve inserire il ripieno composto di pane grattugiato, molto aglio, acciughe rese a pasta, olive di Gaeta color marrone, capperi di Pantelleria. Così confezionati, li si chiuda in una maniera qualsiasi, con cotone o spago sottilissimo e, facendoli “naufragare” in un olio di prima qualità, s’infilino nel forno, dove si lasceranno stare un’ora buona. Li si ritirino, lasciandoli raffreddare (ma non da farli diventare del tutto freddi). Si servano. Il loro sapore acquista una totalità da orchestra alla Strawinskij (sic) in cui ogni strumento resta se stesso. Si sente il sapore del pane grattugiato, dell’oliva, l’acutezza del cappero che ha un fondo deliziosamente amaro.
Molti napoletani ne fanno un pranzo completo. In piena estate vi aggiungono solo delle fette rosse di anguria molto fredde e dopo ci pensa la luna navigante sul loro golfo. Ma si può fare proprio un pranzo completo se, oltre all’imbottitura suddetta, meno il pane, s’imbottiscono di vermicelli prima scaldati al dente e poi lasciati rosolare nel forno. E allora siamo di fronte a un pranzo totale: vermicelli, verdura, spezie, profumo, sapore.
I peperoni imbottiti di vermicelli, che erano una delle leccornie dei re Borboni e dei loro vassalli, fecero andare in sollucchero i Duchi di Windsor che, poi, li ammisero nella loro cucina come piatto da servire ad altre teste coronate senza mai rivelare il segreto agricolo e povero che contenevano.