Ai miei occhi Parigi resterà lo scenario di un romanzo che nessuno scriverà mai. Quante volte sono tornato da lunghi vagabondaggi attraverso vecchie strade con il cuore gonfio di tutto ciò che d’inesprimibile avevo visto! […] Chi vive, chi muore tra quelle mura? Per un romanziere ogni esistenza, foss’anche la più semplice, serba il suo irritante mistero, e la somma di tutti i segreti che una città racchiude ha qualcosa che a volte lo stimola e a volte lo schiaccia. Che enorme spreco di situazioni, di parole, di coups de théatre, di personaggi, di messinscene! Copiare non è possibile. Copiano solo gli incapaci e gli sciocchi. No, bisogna fare altrettanto bene, se si può, con i propri mezzi. Comincia quindi lo strano supplizio della pagina bianca nella quale occorre aprire una finestra che non sia quella che ho visto poco fa, ma che sprigioni una verità altrettanto imperiosa. Julien Green, Parigi, Adelphi, pagg. 117. Traduzione – eccellente – Marina Karam
Bastano poche pagine per capire che si ha a che fare non con un semplice flâneur, ma con un grande scrittore del Novecento, non a caso tradotto da Vittorio Sereni (Leviatan, 1946), Camillo Sbarbaro (Varuna, 1953), da Leonardo Sinisgalli (Passeggero sulla terra, 1959). Julien Green (Parigi 1990 – Parigi 1998) figlio di genitori statunitensi, ha scritto tanto, famosi sono i suoi Diari e Vertigine, raccolta di racconti pubblicata nella celebre collana Bibliothèque de la Pléiade edita da Gallimard. Dopo Suite inglese, Adelphi ci propone questo intenso libro, – spero ne verranno altri – dove Parigi diventa un luogo dell’anima, un mondo interiore ma anche, a mio avviso, scrittura. Luogo innaturale e soprannaturale. Nostalgia. Amore viscerale. Indulgenza. Tolleranza. Studio. Comprensione. E delirio.
“Avevo affisso al muro una mappa di Parigi, che catturava lungamente il mio sguardo e quasi a mia insaputa mi erudiva. Scoprii che Parigi aveva la forma di un cervello umano”. Come poteva un organo così piccolo contenere una città tanto grande? Una domanda che torna a Green durante i lunghi anni di guerra vissuti di là dall’Atlantico lontano da una Parigi occupata da tedeschi. Torna con un’ossessione capace di annullare lo spazio, laddove il tempo è volontà di pensare, di ricordare, di inveire, di immaginare che nel cuore della memoria ci fossero i quartieri, gli ippocastani, le tabaccherie, i rigattieri, i boulevards, i musei, le stratificazioni della storia, le rivoluzioni, i disastri urbanistici, le traiettorie della Senna, che rappresentano ciò che d’istintivo e inespresso ci si porta dentro. Non tenevo conto del fatto, scrive Green, che col passar del tempo, quella Parigi trasposta rischiava di diventare sempre più astratta. Si avverte quasi il desiderio di Green di lasciare una certa immobilità alle cose, pur sapendo che la forma di una città è volubile, fluttuante, mutevole, leggera. Più rapida nel rinnovarsi che un cuore di un mortale, avrebbe detto Baudelaire che della città o di Parigi aveva inventato l’ozioso e lento girovagare, quando le visioni s’intensificano fino a migrare da carne a secrezioni dello spirito. A quell’invisibile che è la traccia dove poter esperire a palpebre dilatate la bellezza delle abbondanti cattedrali come dei piccoli tesori –Saint Julien accoglie la luce e la trattiene fra le sue mura fino al crepuscolo; è quadrata, salda e placida come un ragionamento di san Tommaso – che all’improvviso appaiono all’angolo di qualche cielo poco prima nascosto a ogni possibile grandezza.
“La città, infatti, sorride, solo a chi la avvicina e si perde nelle sue strade: a costui parla una lingua rassicurante e familiare, ma l’anima di Parigi si rivela solo da lontano e dall’alto, ed è nel silenzio del cielo che si ode l’immane, patetico grido di orgoglio e di fede che essa innalza verso le nuvole.”
Parigi, in fondo, non è una città, ma un’enorme scatola con dentro il sogno di chiunque. O anche i ricordi, quelle insolite sagome che ci rendono la vita più obliqua o più definitiva. Parigi, scrive, Green, è una città di cui si potrebbe parlare al plurare, così come i Greci parlavano di Atene. In questo modo essa ci colpisce alle spalle, e non bastano i suoi personaggi, i suoi pittori, i suoi architetti o i suoi scrittori, filosofi e poeti, e sono tanti quelli citati in questo libro, ma di più ne sono quelli che man mano riaffiorano come eterne presenze di una città che ha rappresentato per l’arte e la letteratura il centro e l’enigma di qualcosa di maestoso e di insuperabile. Di universale. Stagioni che indubitabilmente non si ripeteranno. Insieme a Lucien Green, allora, non possiamo far altro che chiederci che cosa sia fatto per durare e cosa no. Tuttavia a questo punto si fa avanti l’insopportabile della letteratura: se Parigi sia una sua creatura, fatta a immagine e somiglianza di se stessa. Mentitrice. Visionaria. Eversiva. Clandestina. Anarchica. O collaborazionista. Foriera di sognatori illustri e di linguaggi imprecisi.
[Julien Green, Parigi, Adelphi, pagg. 117]