Tra i vizi o gli sfizi più sentiti dai napoletani c’è quello di divorare una quantità enorme di frutti di mare di qualsiasi specie. In fatto di frutti di mare il golfo napoletano è secondo, forse, a pochi altri paesi, per esempio alla Spagna e all’America del Nord. (Ma anche la Francia per certe specialità si batte bene). Per limitarci all’Italia, per varietà, Napoli è la prima in assoluto. Vince anche la Puglia che pure è una grandissima produttrice di cozze di Taranto. Ma ove mai fosse seconda, i frutti di mare napoletani sono i più saporiti.
Fu una delle ragioni per cui i Romani, che camminavano per il mondo intero, ghiotti di frutti di mare, si trasferirono a Napoli e vi passavano molti mesi dell’anno e di certo la primavera fino all’autunno inoltrato quando ritornavano nella capitale. Questa antica passione fu trasferita in toto ai napoletani che, sommariamente, si possono considerare i loro successori, almeno per la passione di divorare frutti di mare. Per la seconda volta ho adoperato la voce del verbo divorare perché è tanta la voracità dei napoletani nel mangiarli da non permettere l’uso del verbo mangiare. Per la verità, il frutto di mare i napoletani lo succhiano; lo tirano sulla lingua e l’ingoiano. Alla loro bocca basta il sapore, il profumo di mare e di alghe e anche perché il frutto di mare è quasi impossibile masticarlo.
Siano essi murici o sconcigli (murex) o patelle (patella cerulea) o chiocciola marina (monodonta turbinata) o bivalva (ostrea edulis) o dattero (lithophaga) o mitilo, la cozza, (mitilus galloprovincialis) o tartufo (venus verrucosa) o vongola verace (tape decussatus) o lupino (chamelea gallina) o cannolicchio (solen marginatus), eccetera, tutti i frutti di mare, secondo un’antichissima credenza, sono buoni a infiammare i sensi degli uomini e delle donne. Gli antichi romani non avevano dubbi su questo effetto, per cui è notevole vedere come nei più riposti posti – si scusi la cacofonia – della Campania ci siano a migliaia luoghi in cui sono esposti grappoli e pigne giganteschi di mitili, abitualmente di cozze inframmezzate di limoni grossi della Costiera amalfitana.
Fermarsi a questi luoghi e divorare mitili è considerato, prima di recarsi dall’innamorata o dalla moglie, un rito.
Tutti ordinano una o due dozzine di cozze; senza avere alcun timore contro la possibilità di ammalarsi di tifo. Basta che il venditore rassicuri il cliente che sono cozze del Fusaro, molluschi leggendari. Si tratta di quelle cozze piccolissime, le cozze di scoglio che, dopo averne mangiate una decina, assottigliano la voce; la rendono un po’ opaca e come incapace di uscire dalla gola.
Uno dei piatti tipici e più richiesti in questo golfo sono gli spaghetti con le cozze o con le vongole, famosi nel mondo. Nei ristoranti l’uso che se ne fa è enorme. Ma se cotto il frutto di mare non è pericoloso, perde quel suo sapore carnoso e nervoso, che è il carattere proprio del frutto di mare. Gli antichi romani, padroni di mari puliti e limpidi, i frutti di mare li mangiavano soltanto crudi o ridotti a una poltiglia con cui condivano buona parte dei loro alimenti.
Ma a proposito dell’incombente tifo devo raccontare una storia accaduta nel 1921 a due coniugi. Entrati nella caverna dei frutti di mare, che allora come oggi si trova a Mergellina, una sposa incinta chiese al marito, che li aborriva, di mangiare dei frutti di mare. Poiché a quei tempi si riteneva di dover accontentare qualsiasi voglia della donna pregna, lo sposo accondiscese a che lei divorasse un paio di dozzine di cozze. Quindici giorni dopo, quelli necessari alla maturazione della malattia, lo sposo si ammalò di tifo. La sposa partorì un magnifico bimbetto.
Da tanti esempi di questo genere vi sono molti napoletani che sono contrarissimi all’abitudine di mangiare i frutti di mare crudi, ma altrettanti ve ne sono di voracissimi. Una leggenda di quaggiù dice che il tifo lo prendono coloro che li succhiano con perplessità, mentre sarebbe invulnerabile colui che li divora con un pizzico di pane, molto limone e in allegria.