Il web non salverà nessuno, perché “è un effetto del cambiamento sociale, non sua prima causa”. Chi si ostinasse, pertanto, a confondere le acque, sostenendo che basti affacciarsi sull’affollata balconata di Internet per parlare al mondo ed “esistere” per vaste platee, negherebbe una verità basica, che cioè nessuna compiuta rivoluzione digitale sarà possibile se alla modernità degli strumenti non corrisponderà una speculare innovazione dei contenuti. Di questi ultimi, però, si parla poco, concentrando la riflessione soltanto sui mezzi del comunicare.
Gianni Riotta, giornalista colto, studioso di comunicazione, docente di new media tra Princeton Universty e l’Istitute for Advanced Studies Imt di Lucca, lanciò qualche anno fa una azzeccata sfida culturale sul mondo di Internet, proponendola ai suoi lettori nel libro “Il web ci rende liberi?”, che riuscì ad attivare un’area di dense riflessioni metalinguistiche. Oggi il web abita un’area sospesa, auto-valutata e auto-riferita, ripulita cioè di ogni implicazione umana, un’area per nulla strategica ai fini dello sviluppo culturale ed economico. Un’area per giunta convenzionale che andrebbe, però, opportunamente antropizzata, perché in essa vanno attivati rapporti di cooperazione per la creazione di contenuti innovativi utili alla nostra società senza idee, coinvolgendo «contesti storici e sociali diversi, di uomini e di donne – auspica Riotta – che usino la tecnica nuova e se ne lascino “usare”, generando nuovi linguaggi e nuove idee». Eppure il mondo non gira così.
Le infinite, inconcludenti mini-riforme della scuola degli ultimi anni, ad esempio, fondano con boria assertiva sull’apprendimento di lingue straniere e di Internet, quasi che il cyberspazio non sia un dominio caratterizzato dall’uso dell’elettronica per immagazzinare e scambiare informazioni attraverso le reti informatiche, ma una lingua come un’altra, l’inglese, il francese o il tedesco.
La separazione del web dalle speranze, dalle paure e dagli obiettivi contemporanei dell’uomo, il suo ciclo autonomo e virtuale rispetto ai conflitti, anche esistenziali, del terzo millennio hanno falsato l’era del “personal” che, in circa quaranta anni, a partire dal 1981, è passato dal pc della Ibm per uso domestico agli iPad più sofisticati di nuovissima generazione. Ci si è illusi che il web potesse costituire l’alternativa automatica ad un’Italia in declino, la piattaforma sulla quale saltare per rimediare un posto nella storia. Sono tentazioni, queste, che si susseguono ogni qualvolta l’umanità vive una rivoluzione della comunicazione. È stato così per quella del torchio a stampa di Gutenberg, per le altre dei giornali, della radio, della tv e, più ancora, di Internet, quest’ultima vissuta inizialmente come promessa di democratizzazione della “società dell’informazione” per l’assenza di evidenti controlli centralizzati nella formazione delle notizie e nella loro successiva circuitazione.
Nei momenti di trapasso dalla centralità di un mezzo all’invasiva forza del mezzo successivo, l’umanità vive apprensioni esistenziali, che la disancorano da valutazioni razionali sulle nuove opportunità della comunicazione. Ciascuno, temendo l’esclusione, chiede al mezzo di essere ospitato, incapsulato dentro di esso. Il mezzo diventa, nella società della comunicazione e dello spettacolo, un mondo, anzi “il” mondo. È così che l’universo coincide con la sua rappresentazione. In essa gli uomini si disperdono senza opporre alcun principio di realtà e fluidificano la loro vita in una dimensione a-temporale, nella quale il linguaggio determina, tra l’altro, l’esonero dall’azione.
L’identikit degli internauti italiani, d’altra parte, può essere riassunto in quattro profili, che confermano l’utilizzo ludico e comunque improprio della rete: gli appassionati (pc enthusiasts), coloro che hanno fretta (time constrained users), il pubblico dell’intrattenimento (leisure seekers). Soltanto una parte minima di uomini e donne si connettono come lavoratori della conoscenza (knowledge workers). L’accesso a Internet, ridotto a tanto, non cambia quindi la vita (e la storia) delle persone e delle comunità.
Bisognerebbe convincersi che il mezzo non coincide con il messaggio, come invece riteneva Marshall McLuhan, riferendosi agli effetti pervasivi che gli strumenti della comunicazione determinano sull’immaginario collettivo. No, non c’è alcun collegamento tra mezzo e contenuto. Bando, dunque, alle letture riduzionistiche delle dinamiche contemporanee, che legano gli eventi ai social media, così come, ad esempio, accadde per la primavera araba. I prodromi di quella rivolta erano, invece, da anni nell’incubatore della storia ed hanno trovato con la rete un canale più praticabile e utile per connettersi ad altri fermenti presenti in quei territori così esasperati e divisi.
Detto questo, non intendiamo sostenere che Internet abbia una posizione ancillare nel nostro tempo. Tutt’altro. La rete incamera la grande insoddisfazione economica e sociale degli uomini, risarcisce l’ansia di connessione e integrazione tra realtà diverse e lontane, pone al centro delle aspirazioni la vocazione alla simultaneità e alla (com)presenza. Non può tuttavia essere considerata un surrogato di contenuti, che devono maturare innanzitutto nella capacità degli uomini di essere in sintonia con il proprio tempo, interpretandone aspirazioni e vocazioni e non mollando mai il principio di responsabilità, che è il solo in grado di “imporre” a ciascuno, attraverso lo studio e la ricerca, la realizzazione di propri talenti.