“La realtà di oggi è destinata a scoprire l’illusione di domani”, diceva Pirandello, smascherando l’inganno che si annida nel presente. Era il 1925, l’anno di “Uno, nessuno e centomila”. Il drammaturgo aveva acquisito la certezza che “una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere”. Novantacinque anni dopo, nell’ancora caldo autunno del 2021, dopo che la Nasa ha scoperto Kepler-452 b, il pianeta più simile alla terra mai avvistato, l’arte di scrivere per gli algoritmi di Google acquisisce adepti in vertiginosa crescita. Si tratta di un metodo chiamato SEO (search-engine optimization), ottimizzazione per i motori di ricerca, che consente di capire cosa può affascinare un programma per finire ai primi posti nell’ordine di presentazione degli articoli. L’obiettivo è di ottenere un alto ranking, ma a rischiare è la verità della notizia, caposaldo sul quale fondano tutti i sistemi informativi liberali e democratici. Su questo pericolo e sulla sempre più aleatoria e arrischiata “democrazia digitale” indugiò pochi anni fa Charles Seife, matematico e insegnante di giornalismo alla New York University, nel libro cult “Le menzogne del web” (Bollati Boringhieri), dal sottotitolo vagamente dogmatico: “Internet e il lato sbagliato dell’informazione”. Non si tratta di una tirata luddista contro i mali della rete (l’autore lo premette), piuttosto il libro è un monito contro la cattiva informazione, malattia diventata grave con la rivoluzione digitale. E contro questo morbo, nel cyber spazio non c’è nemmeno vaccino, esiste soltanto il rimedio dello scetticismo.
Perché la strada tortuosa del dubitare per poter credere? Per il motivo che siamo diventati “ingegneri della realtà” e sfruttiamo l’informazione che viaggia alla velocità della luce per modificare la nostra percezione del mondo, “riplasmando la società”. Tra analogico e digitale le differenze sono indistinguibili. La variabile è proprio il sacrificio della verità. Non esiste più il tempo per le verifiche, siamo interconnessi, cioè ostaggio del villaggio-prigione nel quale manipoliamo la rete, costruendo la “irrealtà virtuale” che ci segna. Uno spaccato soffocante, nel quale Charles Seife tracciava la sua via d’uscita per recuperare i contatti umani andati perduti. È lo stesso monito che si coglie in “Parlarsi” (Einaudi) di Eugenio Borgna, un libro che il noto psichiatra, in costante ascolto delle voci provenienti dall’anima ferita, ha dedicato alla comunicazione perduta, alla impossibilità cioè di rendere comune, in questo mondo in cui realtà e rappresentazione si sovrappongono, le esperienze profonde della vita. La relazione è un rapporto con l’interiorità, scambio di passioni e disperazioni: esperienze semplici e gratuite, possibili però fino ai tempi della rete telefonica, legame forte ma non totalizzante. Con l’interconnessione, invece, i dispositivi digitali sono entrati nel nostro apparato sensoriale e la comunicazione si è perduta. Troppi contatti, nessun (vero) contatto.
Seife (come Borgna) non processa la contemporaneità, ma tende a liberare la rete dalla falsa informazione, che si espande come un cancro. Nel 2007 finanche “The New York Times” cominciò a gabbare il sistema, dopo che la SEO suggerì di abolire dalla webpage le date di pubblicazioni degli articoli e Google cominciò a scambiare articoli di archivio per pezzi di giornata. La rivista “The Verge”, nel 2013, postò un articolo sul declino dei videogiochi arcade, che fu “copiato” nel titolo e nel primo paragrafo da “The Huffington Post”, con in calce il link. Lo stratagemma SEO funzionò, e anche questa volta Google scambiò la copia con l’originale e considerò “canonica” la prima, a riprova del fatto che in rete non contano la realtà e la verità dell’informazione. E grazie alle strategie studiate per i motori di ricerca, “The Huffington Post” in dieci anni ha scalato il consenso, ha vinto un Pulitzer e il suo editore ha venduto la testata ad AOL per più di 300 milioni di dollari.
Condensate nelle “prime dieci massime del cyber-scettico” di Seife ritroviamo il percorso umanistico per restare al mondo non disciolti in una multimedialità insopportabile, nella quali i computer risultano addirittura impostati per il “gioco dell’imitazione” (schema ideativo di Alan Turing), per cui un essere umano dialoga con una macchina che si finge uomo o donna e lo conquista. Scopriamo così che Wikipedia è un vecchio zio eccentrico che sa molte cose ma da prendere cum grano salis, che nei media la pigrizia è una virtù perché copiare e linkare vale più che verificare, che Internet non è una rivoluzione per la libertà di parola ma per moltiplicare il pubblico gratis, che le liste di top ten sono solo trucchetti di marketing. Un pianeta sul quale, prima di ritentare il contatto con sé e con gli altri (lo consiglia Borgna), occorre che ciascuno di noi diventi innanzitutto “scettico” .