Davide Iodice è un regista da molti anni impegnato in regolari produzioni di “teatro d’arte”, ma contemporaneamente attento alle manifestazioni creative non ordinarie presenti nel tessuto urbano tanto da realizzare percorsi di Teatro Sociale e di Comunità di particolare forza iconica.
Dagli studi accademici e la frequentazione di grandi maestri della sperimentazione, la biografia artistica di Iodice predilige un’estrema varietà di codici linguistici e spazi rappresentativi non sempre convenzionali. Una riflessione sulla crisi finanziaria cominciata nel 2008 sfocia in uno sguardo sulle sue ricadute nel sociale, inducendo il regista a concentrarsi sui contesti che riflettono tale gravità per creare una proposta artistico-formativa.
Due lavori realizzati con un gruppo di homeless costituiscono casi particolarmente emblematici di tale attenzione, dove il teatro diventa testimonianza individuale e comunitaria, intervento culturale e azione politica sul proprio tempo: La fabbrica dei sogni (2010) e Mettersi nei panni degli altri: vestire gli ignudi (2014).
Il primo esperimento, ispirato al Sogno di Strindberg, sceglie il dormitorio pubblico di Napoli come cartina tornasole della crisi sociale in atto, nonché come luogo più prossimo alla baia della vergogna evocata dal testo. Iodice frequenta la casa quotidianamente per tre mesi, stabilendo con i suoi abitanti un ponte comunicativo fatto di fiducia e attesa, una rete empatica che accoglie necessità relazionali e rivela potenzialità nascoste. Si creano così le condizioni per un laboratorio che, per circa un anno, attiva un processo teatrale che sfocia in un’apertura al pubblico di oltre un’ora. Tale risultato viene poi inserito nell’edizione del Napoli Teatro Festival Italia e coprodotto dal Teatro Stabile, presentato nei giorni dal 15 al 20 giugno 2010 con titolo La fabbrica dei Sogni. Percorso di ricerca e creazione su sogni, incubi e visioni del contemporaneo con gli ospiti del dormitorio pubblico di Napoli.
Giovani attori chiamati a contaminarsi
con i residenti del dormitorio: un evento
Ad accompagnare Iodice è un gruppo di giovani attori chiamato a contaminarsi con la realtà dei residenti, in un procedimento immersivo che stabilisce una mediazione culturale ancor prima di un sistema di collaborazione teatrale. I vissuti che emergono risultano i più disparati, tanto che a destini estremi segnati da miseria, violenza e ignoranza si affiancano profili insospettabili che definiscono il fallimento economico e civile dell’ultimo decennio (un ingegnere, un avvocato, un portiere notturno, un falegname, una maestra, un fabbro, un libraio). La comunità del dormitorio partecipa all’invenzione scenica scatenata dagli stimoli proposti dal regista, o veglia dall’esterno in un gesto di estrema fiducia verso gli attori affinché il dolore si trasformi in bellezza e incanto. La tecnica compositiva che qui si articola è una scrittura scenica di natura acentrica, una partitura fisico-emotiva simile a un flusso di coscienza che segnala obiettivi e registra risultati. L’elaborazione procede attraverso momenti compositivi fondati sui linguaggi plurimi in nome di una testualità che si fa corpo, una grammatica aperta e inclusiva che si nutre dei contributi creativi di una materia umana imprevedibile e sorprendente. L’azione finale sceglie una modalità itinerante di rappresentazione che trasforma l’immagine abituale degli ambienti, solitamente connotati da un’unica destinazione d’uso, nella realizzazione di un evento partecipato. Il percorso guida il pubblico in una via crucis dolente e liberatoria che dal piano terra conduce alla terrazza. All’ingresso uno degli ospiti accoglie gli spettatori con cappellino e zainetto in spalla, preparando le persone a una introspezione personale. Il corteo dei visitatori è poi introdotto nel refettorio dove, lungo un tavolo da “ultima cena”, gli homeless comunicano un sogno ricorrente o un desiderio, in una lettera a chi non c’è più o nella rievocazione di un pregresso. Gli attori professionisti assumono la postura di angeli custodi, presenze silenziose che sostengono i compagni di viaggio in ogni forma necessaria. Successivamente si accede alla zona notte, la cui fisionomia ordinaria è alterata dall’utilizzo creativo dei letti, dove si assiste alla rappresentazione da parte dei performer delle angosce più nere emerse nei mesi di cooperazione sulle quali gli homeless intervengono in alcuni momenti dell’azione scenica. Ma dopo il dolore, l’elemento onirico traduce in quadri il desiderio che si trasforma in medicamento dell’anima: nuotare in un mare sereno, ritrovare il proprio posto, camminare nel sole. Per un saluto finale, ci si raccoglie nel cortile del palazzo in un variopinto scenario di cartapesta, palcoscenico felliniano dove si esibiscono un’orchestrina da festa di piazza e cantanti improvvisati. Tutti i presenti sono inondati da una pioggia di coriandoli in una sorta di Carnevale collettivo, rito finale che intende celebrare i sogni in un gesto di speranza ed esorcizzare gli incubi come atto di libertà.
Lo sguardo dell’artista sul territorio
e sulle lacerazioni dei suoi abitanti
Questa prima esperienza rafforza in Iodice lo sguardo sul territorio tra le bellezze involontarie e le lacerazioni profonde dei suoi abitanti, in una ricognizione estensiva che nel 2013 lo porta a istituire la “Scuola Elementare del Teatro. Conservatorio popolare per le arti della scena”. Si tratta di un laboratorio permanente inizialmente collocato nell’ex Asilo Filangieri, oggi ospitato dal Teatro Nazionale di Napoli, basato su un programma di pedagogia teatrale orientato all’ascolto e al coinvolgimento di gruppi intergenerazionali con esigenze complesse. Per l’edizione del 2014 il Festival chiede a Iodice un nuovo contributo che il regista non esita a preparare ancora una volta nel palazzo di via Blasiis stabilendo, questa volta, uno stretto legame con la Scuola Elementare del Teatro. Il lavoro si ispira alle Sette opere di misericordia di Caravaggio che intende associare ciascuna delle intenzioni a un’azione teatrale in un contesto di disagio.
In Vestire gli ignudi percorso opposto
Viaggio verso il basso con tanta musica
L’imperativo qui considerato è Vestire gli ignudi, con uno rimando immediato alla distribuzione dei capi di abbigliamento per i senza fissa dimora: vestiti altrui, contrassegnati solo dal numero del letto di ciascun destinatario, segno della perdita totale di ogni bene personale e rimando iperbolico allo smarrimento della propria identità. Le circostanze sono favorevoli per rinnovare una pratica che unisce in prima persona homeless e attori in una esplorazione creativa ed esistenziale alla pari, ovvero, la ricerca reciproca dei momenti che hanno determinato il crollo delle proprie certezze. L’azione conclusiva, rappresentata dal 12 al 15 giugno 2014 col titolo completo di Mettersi nei panni degli altri: vestire gli ignudi, assume un andamento opposto a La fabbrica dei sogni: non più percorso ascensionale ma viaggio verso il basso, itinerario teatrale che dai piani più alti conduce al livello più inferiore dell’edificio. Un gruppo di venti visitatori per sera viene accolto da uno degli ospiti che mostra una scatola di cartone grezzo con la scritta «Fragile»: resti preziosi, doni delicati, o semplicemente oggetti vecchi e nuovi carichi di verità da riqualificare in senso creativo. Tra racconti e canti, il pubblico è accompagnato dal suo cicerone su per le scale fino al sottotetto, dove la lavanderia ha in funzione le sue macchine che mischiano il proprio rumore alla musica di un violoncello suonato dal vivo da una donna dal volto imbiancato. Al centro della sala un cumulo di vestiti sussulta facendo emergere un danzatore che si divincola tra le stoffe e porta il suo corpo seminudo sulla terrazza prospiciente, sui fili per il bucato come un panno steso al sole. Una delle residenti apre i tarocchi e, mentre racconta il suo primo contatto con l’arte divinatoria, gira le carte che schiudono il purgatorio di immagini che sta per manifestarsi. Si scende, infatti, giù per gli altri ambienti che si trasformano in luoghi onirici senza tempo, grazie a pochi ed evocativi elementi scenografici (maschere, piccole sculture, stoffe). Si passa nelle camere che recano i piccoli segni di chi vi abita di notte (un rosario, una bottiglia d’acqua, una medaglietta), si percorrono corsie buie e poi giù verso il refettorio, il cortile e la palestra. Domina un forte odore di disinfettante che definisce quasi un non-luogo, un non-teatro dove i protagonisti mostrano il brandello di una memoria che sta recuperando i suoi pezzi e sta spalancando visioni nel gioco della rappresentazione. Così che, segnalando solo i segni più forti, il letto diventa barca che evoca pericolose uscite a caccia di coralli, una canzone restituisce la folgorazione del grande amore, un libro rimanda a un’infanzia negata. Ogni stazione è attraversata da canti e stralci poetici, scritti ed eseguiti dagli stessi homeless che, nel tratto finale della discesa, giungono al livello più inferiore del palazzo. Qui il corridoio diventa pista dove essi corrono (ciascuno come può), incitati dal pubblico, verso un traguardo segnato da un nastro rosso che separa da uno specchio che restituisce la propria e l’altrui immagine.
Una grande catena circolare si forma
tra attori e pubblico: un rituale laico
Nel momento conclusivo il filo si trasforma da diaframma in cordone unificante che passa tra le mani di tutti i presenti (attori e pubblico) formando una grande catena circolare, immagine di un mondo in cui ogni individuo è equidistante dal centro. Per la durata dell’evento gli spettatori sono stati coinvolti in un rituale laico dove la perdita dell’identità, la ricostruzione dei sentimenti, la paura dell’alterità, la disintegrazione di un sentire collettivo e, al suo opposto, la necessità di un recupero sociale, non riguarda solo i protagonisti di vite al limite, ma si estende all’intera comunità che sperimenta il teatro come pharmakon, cura, attenzione, dispiegandosi in una irrinunciabile forza aggregativa. Il rischio tangibile di spettacolarizzare il dolore altrui, molto frequente in operazioni teatrali di questa intensità, negli esempi analizzati è eluso in partenza dalla centralità del processo creativo che prevale sul prodotto estetico. L’intento è quello di recuperare la bellezza residuale di un’umanità dolente e invisibile, trasformando in poesia contesti carichi di criticità che, mentre mostrano i risvolti di vicende e scelte individuali, smascherano la responsabilità della Storia. In questo senso tali lavori incarnano eventi in cui i protagonisti consegnano la propria prossimità al teatro, in uno spazio che liricamente amplia il suo valore artistico per diventare terreno degli incontri. Il teatro diventa così spazio metafisico e luogo di sperimentazione che non rinuncia alla sua peculiarità, ma rivendica il privilegio di farsi voce imperiosa di denuncia e impegno sociale.