«I napoletani non sarebbero quello che sono se in questo gioco autolesionistico-esibizionistico della “napoletaneria” non sprecassero qualità di intelligenza, di spirito, di senso dell’umorismo, e quell’estro nero e civile che essi fanno passare per la loro “filosofia”. Nella maggior parte dei casi risultano simpatici, e fanno di tutto, come ho detto, per esserlo. Ma perché devono a tutti i costi essere simpatici? «Qui siamo tutti troppo simpatici, è una città di simpaticoni la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare» feci dire a un mio personaggio. Pensavo allora che voler essere simpatico fosse un atteggiamento servile, perché è il servo che per essere accettato deve piacere, deve fare il buffone. Perciò il suo viso è così mobile, così pronto a mutare espressione, pieno di ammicchi e di smorfie. Chi non è servo se ne può stare immobile e impassibile, perché non ha bisogno di piacere a nessuno. Oggi invece io faccio una distinzione e dico che solo la “napoletaneria”, che per sua natura è inconsistente, deve essere simpatica per sentirsi riconosciuta ed accettata. La “napoletanità” non ne ha bisogno, perché la “napoletanità” ha una sua consistenza e un suo fondamento; e può assumere il viso immobile di Eduardo De Filippo che ha inventato addirittura un nuovo modo di recitare, pur di mantenere quell’espressione. Le smorfie di Totò non sono certo quelle dei riflessi condizionati della “napoletaneria”; sono meccaniche e artificiali, e come isolate, per essere meglio esibite e derise. Eduardo e Totò, questi due illustri e così diversi rappresentanti della “napoletanità”, non facevano proprio niente per essere simpatici, sia nella vita che nell’arte. Anzi, spesso, da veri napoletani, si compiacevano di essere cordialmente antipatici.»
[Raffaele La Capria, L’armonia perduta]