La scontentezza non è infelicità e non coincide con la malinconia. Sappiamo anche che precede il livore e l’odio ed è più profonda del narcisismo. La ritroviamo sul viale sempre più popolato del malessere, impressa sul volto di uomini e donne come uno stampo desolante. L’uomo scontento è demotivato e il suo stato si vede. Se poi riesci a cavargli qualche parola dalla bocca, la scontentezza si sente anche. Se n’è accorta l’industria del consumo che la ricicla nei suoi perversi percorsi e la fertilizza nei contemporanei bacini d’ansia trasformati in aree di consenso. E così la colossale industria dello scontento di massa alimenta insoddisfazioni inesauribili e inappagabili, utilissime alla più cinica “ideologia” del tempo, che è il marketing.
Marcello Veneziani, nel suo recente libro (“Scontenti – Perché non ci piace il mondo in cui viviamo”, Marsilio, pagg. 176, euro 17), va oltre l’analisi di questo angoscioso stato d’animo, anzi lo capovolge nei suoi radicati assetti, lasciando intravedere una prospettiva o, perlomeno, una via di fuga. La scontentezza – eccola, la svolta – può diventare energia, impedendoci di soccombere alla notte, ma solo se diventa condivisa, se si trasforma, cioè, in malcontento. A quel punto il potere, che non riuscirà più a ricacciarla nel privato, cosa che in genere fa per garantirsi il controllo sociale, avrà difficoltà a utilizzarla per sottomettere, avvilire, asservire. Il passaggio dalla scontentezza privata al malcontento pubblico potrebbe evitare il rischio di essere schiacciati dalla dittatura del presente. Questa è una svolta rilevante, per poterci opporre a un potere che ci vuole dimessi e non contenti, forte com’è dell’alleanza con lo scarso senso civico e con i modelli imitativi imperanti, in un contesto europeo nel quale l’istruzione appare in crescita ma la cultura in caduta libera. È proprio su questo terreno che scopriamo la forza energetica della scontentezza, cioè di un’alienazione che è pur sempre consapevole e, come tale, ha la potenzialità di accomunare e rendere solidali.
La molla che sposta l’equilibrio dal privato al pubblico è frutto della naturale inclinazione umana a rappresentarsi un rapporto con il futuro, oltre che con il passato e con l’eterno, ma anche con il mito e con il sogno. Potrebbe essere, questa, una caratteristica fertile della scontentezza, che propone a ciascuno, specie nei momenti più bui dell’esistenza, un distanziamento critico dalla realtà. Una scontentezza, quindi, che si accredita come carburante, lievito e principio di intelligenza. Bisogna, però, saper cogliere l’attimo del suo riconoscimento e imboccare la strada alternativa senza tentennamenti e con intraprendenza vigile e ferma. Leggendo il libro di Veneziani, potremmo decidere di far tesoro di questa pista e lanciare la nostra vita verso una nuova prospettiva. Occorrerà, però, riconoscere (e coltivare) senza tentennamenti la intelligente scontentezza di nuovo conio, chiamiamola pure scontentezza non sistematica ma di metodo, assunta come dispositivo per cambiare. Non per nulla il mondo, ricorda l’autore, regge su chi si accontenta ma cammina sulle gambe degli scontenti.
Da qualche anno la delusione per la vita è penetrata anche in quei settori che hanno sfruttato la scontentezza per far soldi. Sì, nel cinico marketing di cui si parlava prima e del quale si conosce molto poco, tant’è che nei nostri corsi universitari di Scienze della Comunicazione si studia il marketing analitico, quello strategico, ma molto poco l’altro operativo. Quest’ultimo si pone l’obiettivo di raggiungere un obiettivo all’interno di una strategia, e non è affatto poco.
Le agenzie un tempo erano avanguardie creative, oggi anche lì dentro c’è sottomissione, sfruttamento, quotidianità cupa, al punto che molti manager si defilano e, con il denaro dei compensi maturati in lunghi anni di lavoro, tentano di inventarsi un’esistenza nuova, in isole da sogno, talvolta nel volontariato o nell’attività parlamentare che, comunque, offre redditi non trascurabili. È quanto si scopre, in controluce, nell’ultimo bel libro dello scrittore, umorista e sceneggiatore Walter Fontana (“L’uomo di marketing e la variante limone” – Bompiani, pagg. 170, 16 euro), nel quale compaiono scene di vita minima, confinate in genere dietro le quinte del commercialmente corretto, che ritraggono l’esistenza di chi vive nel marketing e nella comunicazione, soprattutto all’interno delle multinazionali del settore: successi (pochi), insuccessi (tantissimi), cialtronerie, cinismi, soprusi sbrigativi, follie e tanti soldi che girano.
“Amletica leggera”, il nome della collana che ospita il romanzo, già la dice lunga: diretta dal giornalista, scrittore e semiologo Stefano Bartezzaghi, dà risalto a un’area dove sarcasmo, ironia, comicità possano convivere senza interferenze negative. L’autore, nel suo agile e disinvolto racconto, ha evocato, con gradevole linguaggio brillante, i tratti originari e la mutazione del settore. fino a qualche decennio fa praticamente sconosciuto. Il marketing, si sa, è un giovane ramo dell’economia, teorizzato nel non lontanissimo 1959, e oggi popolato da una pletora di addetti senza alfabetizzazione informatica e con una insufficiente cultura umanistica di supporto, personaggi incapaci di dar vita a relazioni professionali stabili e affidabili. Tant’è che alcuni studiosi suggeriscono agli addetti di accantonare la multimedialità per affidarsi alla multimodalità, portando così l’attenzione dall’aspetto tecnico-strumentale ai modi e ai linguaggi più comprensibili della comunicazione. Un settore dalla vita difficile, colpito dalle stesse malattie dell’anima sulle quali ha speculato per anni al fine di produrre reddito e gonfiare oltre ogni limite le fantasie onnipotenti fermentate nell’humus della scontentezza e del consumismo omologante.
Un romanzo ucronico, questo di Fontana, godibile e divertente, che riporta lo sguardo, ancora con maggiore interesse e simpatia, sul saggio sommessamente fidente di Marcello Veneziani.