In Italia sono circa 60 mila le persone che ogni anno muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento ambientale, che rimane tra i maggiori fattori di rischio per la salute umana. A sottolinearlo è l’indagine realizzata dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) dal titolo “La qualità dell’aria”, relativa all’anno 2022. Tra le zone maggiormente colpite c’è anche l’agglomerato di Napoli e Caserta. Si tratta di aree ad altissima densità urbana, già note per le vicende legate allo sversamento dei rifiuti speciali e alle nubi tossiche della Terra dei Fuochi.
All’interno del report “Mal’aria” di Legambiente, relativo ai dati del 2022, ci sono alcune informazioni significative che svelano quanto – anche alla luce del mondo post pandemico in cui ci si appresta a vivere – quello dell’inquinamento atmosferico non sia un problema da sottovalutare, nonostante un lieve e generale miglioramento rispetto al decennio passato. Non si tratta, infatti, di una questione prettamente ambientale, ma anche e, forse, soprattutto sanitaria e sociale.
Il Covid ha portato a galla diverse criticità radicate non solo nel sistema sanitario, ma più in generale in tutte le strutture e sovrastrutture sociali e culturali che si sono trovate a dover far fronte agli effetti collaterali provocati dalla ferita inferta dalla recente, contagiosa epidemia. Uno studio dell’Università dell’Insubria di Varese ha evidenziato che esistono forti correlazioni tra l’esposizione cronica a livelli elevati di inquinamento atmosferico e l’aumento della sintomatologia da Covid-19. I principali responsabili della cronicizzazione di alcune patologie respiratorie e cardiovascolari e della morte prematura di almeno 50 mila persone all’anno sono da considerarsi le polveri sottili PM10 e PM2.5 e gli ossidi di azoto, in particolare il biossido di azoto. In sintesi, sono ben 72, tra le 95 monitorate, le città che hanno superato i limiti di emissione previsti per legge (PM10, PM2,5 e NO2). Se fossimo già nel 2030 – l’anno designato per rendere più stringenti le normative in materia di inquinamento ambientale – la situazione generale sarebbe inaccettabile. Ma, a soli sette anni dall’obiettivo, questi dati non sono rassicuranti.
Quali sono le attività industriali o private che determinano la quota maggiore di emissioni di particolato e polveri sottili che tanto nuocciono alla salute umana? Nel 2020, i sistemi di riscaldamento degli edifici residenziali, commerciali e istituzionali sono stati responsabili del 44% delle emissioni di PM10 e del 58% di quelle di PM2.5. Un dato particolarmente significativo, se lo si legge anche in relazione alle restrizioni causate dal lockdown. Il settore dell’agricoltura ha generato il 94% delle emissioni europee di ammoniaca e il 56% di quelle di metano. Per quel che riguarda gli ossidi di azoto – considerati tra i marker principali che determinano la qualità dell’aria – la maggior parte delle emissioni sono venute per il 37% dal trasporto su strada, per il 19% dall’agricoltura e per il 15% dall’industria. Infine, dato ultimo per trascrizione ma non per importanza, le emissioni di metalli pesanti – come nichel, arsenico, mercurio e cadmio – provengono soprattutto dalle industrie estrattive, manifatturiere e metallurgiche.
Il Sud, i registri tumori fantasma e la mancata prevenzione
La questione dell’inquinamento ambientale in Italia, in particolare nel Mezzogiorno, è strettamente collegata al rischio di sviluppare patologie croniche e acute come tumori, malattie autoimmuni e sindromi respiratorie e cardiovascolari.
È il 3 dicembre 2022 quando la Campania viene riconosciuta, ufficialmente, dal Ministero della Salute come la regione dove “si muore di più” in Italia. E – verrebbe naturale aggiungere – dove tale disastro viene attribuito alla questione della deprivazione economica. Per questo motivo, dopo che la Regione ha inviato al Ministero i dati epidemiologici legati al Covid, è stata prevista una somma extra da destinare al fondo SSN (Servizio Sanitario Nazionale) per cercare di risolvere questo gap. Tuttavia, gli stessi dati – sebbene siano nelle mani della Regione e del Ministero della Salute – non sono stati resi pubblici e trasparenti e quindi, attualmente, non sono a disposizione dei cittadini. Allo stesso modo, come ennesima dimostrazione che il Covid sia servito a sollevare il velo dalle già critiche condizioni della sanità pubblica e portarle alla luce, ecco che un altro dato fondamentale è quello che riguarda il registro tumori della Campania, che è fermo al 2016. Secondo uno studio condotto dall’Università di Bologna, l’Università di Bari e il Consiglio Nazionale delle ricerche (CNR) nel decennio 2009-2018, Napoli è tra le città italiane in cui si muore di più proprio a causa dei tumori e, in generale, le città in cui c’è più inquinamento atmosferico. A questo punto, sorge spontanea una domanda: come mai non è possibile accedere ai registri tumori se le stime risultano essere così allarmanti?
Un’ulteriore variabile da considerare nel quadro generale che si sta cercando di tracciare e che rende ancora più gravi le conseguenze dell’inquinamento atmosferico è quella che riguarda il tasso di prevenzione che in Italia rimane ancora troppo basso e presenta profonde diseguaglianze interne, con un divario anche del 30% tra Nord e Sud. L’indagine europea sulla salute (EHIS), condotta nel 2019 e ripresa dall’Istat, mette in evidenza – per quanto riguarda l’Italia – le enormi carenze dal punto di vista della diagnostica di prevenzione. Al Mezzogiorno, in particolare, si è deciso di destinare oltre il 40% delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) finalizzate alla prevenzione, con un’integrazione ulteriore rispetto a quanto previsto inizialmente. Che il Piano sia considerato un fondamentale punto di partenza post-pandemia è un dato di fatto, ma sarebbe certamente necessario un lavoro più profondo e radicato sulla comunicazione dei dati e la trasparenza degli stessi non solo per riuscire a delineare gli sviluppi futuri, ma anche per interpretare le evidenze del presente.
Le criticità al Sud, da Taranto a Salerno
Tra gli stabilimenti industriali che attraversano la penisola italiana – e che sono responsabili di una gran parte dell’inquinamento atmosferico prodotto – ce ne sono molti che sono balzati spesso al centro di diverse inchieste sull’inquinamento ambientale perché ritenuti non completamente a norma e fortemente pericolosi per la salute pubblica. Si tratta di alcuni insediamenti nevralgici da cui originano dati ed evidenze attraverso cui negli anni si è tentato di svelare, almeno in parte, questo volto nero dell’Italia. L’Ilva di Taranto, la centrale termoelettrica a carbone Enel di Brindisi o quella di Sassari, le raffinerie Sarde Saras di Sarroch, la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia sono solo alcune delle fabbriche che già nel 2011 rientravano nel Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (Eea) sull’inquinamento prodotto dalle industrie europee e che venivano bollate come alcuni dei siti più “tossici” del continente. Oggi alcune di queste fabbriche sono ancora in funzione, altre stanno affrontando insidiosi processi legali, altre ancora sono state o devono essere delocalizzate a causa dell’insediamento urbano che vi si è sviluppato attorno o rinnovate in quanto utilizzano macchinari vecchi, inquinanti e nocivi per l’ambiente e per la salute umana. Ci sono poi altre realtà, ancora poco conosciute a livello nazionale, che – pur attraverso numeri senz’altro minori e una risonanza mediatica inferiore – stanno attraversando le medesime vicende giudiziarie senza, tuttavia, che si sia giunti a una verità univoca per le popolazioni che da anni vi gravitano attorno.
È il caso, ad esempio, delle Fonderie Pisano di Salerno, situate in via dei Greci, a cavallo tra i comuni di Salerno, Pellezzano e Baronissi e da tempo al centro delle polemiche di cittadini e ambientalisti per via dei fumi che lo stabilimento produce. Da anni si ipotizza che essi possano essere la causa di alcune morti sospette che sono avvenute e continuano a verificarsi proprio in quell’area della Valle dell’Irno. Anni di manifestazioni, studi, inchieste e procedimenti legali non sono bastati, però, a fare chiarezza su una vicenda attraversata da non poche criticità. Le Fonderie Pisano, intanto, continuano a operare a pieno regime e di quei fumi che s’innalzano dalla fabbrica e invadono tutto il territorio circostante ancora non si conosce la precisa natura. Ciò su cui ancora ci si interroga è se ci sia un nesso di causalità tra le polveri emesse dall’opificio e i casi di morte che negli anni si sono susseguiti proprio tra i residenti di via Dei Greci e delle strade e quartieri limitrofi.
All’inizio di marzo, hanno destato stupore le dichiarazioni del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, arrivate come un fulmine a ciel sereno dopo mesi di silenzio sulla vicenda. Il Governatore ha sostenuto, durante una lectio in un liceo salernitano, che «le Fonderie Pisano vanno chiuse perché inquinano». Rimane, dunque, un mistero il motivo del rinnovo, tre anni fa (e per altri 12 anni), da parte della Regione Campania dell’Aia, dell’Autorizzazione Integrata Ambientale.
Solo l’anno scorso, è stato pubblicato uno studio complesso che ha tenuto conto della documentazione relativa ai controlli effettuati dall’Arpac sulle “Pisano”, dello studio di biomonitoraggio Spes e dello studio di mortalità sugli archivi Istat nella provincia di Salerno, che ha portato alla luce alcuni aspetti significativi sulla vicenda. All’interno della documentazione, si legge che “l’area è interessata da inquinamento continuo da polveri fini contenenti materiali residui della combustione, inclusi metalli pesanti”. Quegli stessi metalli – mercurio, arsenico, cadmio, cromo e nichel – che sono stati ritrovati proprio nel sangue dei residenti in prossimità delle fonderie e che sono ritenuti particolarmente tossici per la salute umana. Lo stesso studio ha, inoltre, messo in evidenza come nelle zone prossime alla fabbrica ci sia “un eccesso di mortalità per cause cerebrovascolari”, “un eccesso di tumori polmonari nella popolazione femminile” e “un eccesso di mortalità per malattie neurologiche negli uomini”. Insomma, è proprio partendo da questi dati e vicende (giudiziarie e umane) che si cercherà di tracciare il quadro completo di una storia che ancora oggi, dopo anni, presenta più punti d’ombra che di luce.
(1 – continua)