Uscito nelle sale il 31 ottobre, Berlinguer – La grande ambizione è una pellicola che a quarant’anni della morte di Enrico Berlinguer si propone di tratteggiare un ritratto dell’uomo politico e dell’uomo privato calato in un momento storico particolare del PCI dall’attentato ad Allende al rapimento di Moro. Il film è una testimonianza non soltanto evocativa di un periodo storico così apparentemente lontano ma così rilevante, bensì è una pellicola che inevitabilmente, quasi come reazione fisiologica, porta lo spettatore a riflettere su quelli che a oggi sembrano i brandelli di un’etica e di un credo non più dediti agli ultimi tra le fabbriche e le strade di periferia, ma espressa tra le pareti della sede del partito e che solo di facciata sembra rispondere al credo iniziale.
Andrea Segre compie un lavoro certosino evidente dal preciso rispetto della cronologia storica politica degli eventi e dalla scrupolosità nell’inquadrare nella vita del presidente della PCI anche i minuscoli particolari (l’immancabile bicchiere di latte, la complicità silente con la moglie, la trasparenza nel dialogo con i figli) per esprimere tout court l’uomo politico e l’uomo privato alterando a ciò delle scene forse più commoventi suscitate dall’aggiunta dei veri filmati ripresi dagli archivi. A reggere la personalità di Berlinguer c’è un magnifico Elio Germano che sembra cogliere tutte le sfaccettature del presidente del PCI, il suo fare timido ma vitale, il buffo accento sardo che a tratti emergeva anche nei suoi comizi politici, il suo corpo esile e minuto avvolto sempre da completi più larghi. Germano non è mai eccessivo nell’interpretazione, ma sempre misurato e adatto al momento, la scelta perfetta di un attore che già precedentemente si era contraddistinto per interpretazioni mai retoriche ed enfatiche di personaggi del passato come il suo magistrale Leopardi in Il giovane favoloso (2014).
La grande ambizione non è un film biografico, è un film su un’idea, un’idea ambiziosa, quella che egli definisce la via democratica del socialismo, lontana dal totalitarismo sovietico ma senza inciampare nel servilismo statunitense, una grande ambizione appunto che in Italia ha necessità di concretizzarsi solo attraverso un’alleanza con i democratici cattolici (la DC). Nella seconda metà del film , dunque, si delineano i due profili incisivi di questo progetto, Berlinguer e Moro, che con aria timida e rispettosa sembrano corteggiarsi lentamente. Partendo da ciò, la novità di questo film è soprattutto una grande attenzione a quell’Italia che gravitava attorno al PCI negli anni ‘70, un’Italia diversa, un’Italia forse più difficile da accattivare poiché maggiormente coinvolta politicamente, seppur certe declinazioni sovversive e violente, sintomo di una grande fiducia nella classe politica e nella sua capacità di poter veramente cambiare le cose. Il film rappresenta una personalità senza macchia soprattutto alla fine con la messa in scena del rapimento Moro, narrata anche con un pizzico di approssimazione visto la materia complessa trattata. Andreotti emerge come da tradizione quasi come un fantoccio buffo e grottesco senza approfondire il lato imperturbabile, scaltro e machiavellico che non poco ha inciso nell’esito del caso Moro e la linea di fermezza adottata dalla DC e dal PCI sembra essere stata quasi una reazione obbligata ai gruppi extraparlamentari di sinistra, in particolare alle BR fautori del rapimento, senza dare spazio alle vere motivazioni (controverse e non) di questa posizione e a come essa è stata probabilmente incisiva nella morte di Moro.
La grande ambizione è un film che commuove poiché catapulta lo spettatore in un periodo storico benché fortemente complesso, un periodo partecipativo in cui Berlinguer che ha dedicato la sua intera esistenza alla collettività inevitabilmente sembra incarnare la parte buona e democratica di questo spirito. Un film che sembra urlare sin dall’inizio una frase di un famoso cantautore milanese ‘Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona’.