Esiste una bellezza eterna che sopravvive al passaggio degli uomini infelici, perché “chi vive nella bellezza è condannato all’infelicità”. Paolo Sorrentino è bravo a colpire lo spettatore con le immagini di città come Roma e Napoli, la cui grande bellezza induce alla ricerca di dosi crescenti di appagamento, e cresce anche la rabbia quando tali grandezze sono in netto contrasto con una società incurante e ripiegata su sé stessa, che ha smarrito il senso di colpa. Nell’ultimo film del regista napoletano, Parthenope nasce nell’acqua, al centro della teatralità di una villa ubicata a Posillipo, in cui, a parto concluso, gli spettatori applaudono; mentre Achille Lauro, detto “o’ comandante” (armatore degli anni ’50 e primo sindaco populista di Napoli, rimasto nella storia per la seconda scarpa concessa in regalo solo dopo il consenso elettorale), le assegna il nome antico di Napoli. Parthenope cresce e i decenni sfogliano i calendari fino agli anni ’80, i più amati dalla generazione di Sorrentino. Frammenti di narrazione, a tratti sconnessi e affidati all’azzurro del paesaggio che ricopre ogni cosa come il manto iconico della Madonna, si ricongiungono con gradualità nella coerenza del discorso. Nel film non appaiono Madonne, troneggia, invece, l’ampolla misteriosa del sangue di San Gennaro, custodita dal cardinale Tesorone: personaggio grottesco, che si intrattiene con Parthenope nella cripta del tesoro (l’oro di Napoli) in mutande rosse e la chioma fresca di tintura scura. La capacità iconoclasta del regista mischia la sacralità al sarcasmo pungente, sfidando così la devozione dei napoletani per il Santo Patrono e la proverbiale superstizione popolare: perché “la verità è indicibile e ciò che rimane è solo l’ironia”. La faccia borghese di Napoli si allarga nelle ville di Capri e lungo le stradine sulle rocce a strapiombo sul mare, dove poeti americani blasé , solitari e alcolisti, vi trovano ispirazione; mentre la tracotanza dei ricchi caccia belle compagnie. Quest’ultima non cattura Parthenope, anzi la induce a lasciare i Palazzi e a conoscere la Napoli dei vicoli e dei quartiere, dove vigono altre leggi, tra riti tribali (propiziatori di una giusta fusione tra le famiglie camorristiche) e le esplosioni dei fuochi pirotecnici: “festa, farina e forca” di borbonica memoria. C’è da chiedersi, nell’orgia simbolica dei personaggi rappresentati con nomi fittizi (Greta Cool, da ricondurre a Sofia Loren, l’attrice Flora Malva sfigurata dalla chirurgia plastica, l’amico Sandrino, il fratello morto suicida, il cardinale Tesorone, il professore Marotta, il camorrista Giuliano …), nella promiscuità del film in cui la sessualità è triangolare e fluida, sia stato davvero amato da Parthenope. Uno, nessuno o centomila? Parthenope ama l’antropologia e si affida al rigore del professore Marotta, che la spinge nel mondo accademico universitario. Lascia l’azzurro di Napoli e si trasferisce nella Regione dello speck. Sarebbe dovuto essere un periodo breve e invece ci rimane fino all’ultimo giorno di lavoro. E quando, durante la consueta cerimonia di saluti e ringraziamenti riservata ai neo – pensionati, una studentessa le chiede “Come mai proprio lei è una donna sola”, Parthenope, per la prima volta risponde di getto “Mi sono distratta”. Il leit motiv del film è “A cosa stai pensando?”. Ma una risposta non c’è quasi mai. Perché Parthenope, come la vita e come Napoli, è una contraddizione, un ossimoro: lo spettro degli eventi di ieri che si arriva a comprendere solo quando è scaduto il tempo e non si afferrano più.
La Parthenope di Sorrentino è un ossimoro, come la vita
Il leit motiv del film è “A cosa stai pensando?”. Ma una risposta non c’è quasi mai
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