Salerno, 70 anni fa la roccia nuda della vetta mostrò lo scivolo terroso delle frane. E il tempo si fermò

L'alluvione di Salerno del 25-26 ottobre 1954 fu una catastrofe che segnò profondamente la vita del paese. Alla fine di vittime se ne sarebbero contate complessivamente 316: 106 a Salerno, 117 a Vietri e frazioni (Molina, Marina, Albori), 31 a Cava e frazioni (Alessia, Marini), 34 a Maiori, 3 a Minori, 35 a Tramonti. Ma i dispersi furono decine, e quasi 400 i feriti. Cifre che contribuivano a disegnare il perimetro di una delle più gravi catastrofi naturali della prima parte della storia repubblicana

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La televisione, che aveva inaugurato le trasmissioni solo 10 mesi prima, mostrò all’Italia sgomenta un panorama lunare. Quasi a nessuno sfuggì che macerie e devastazioni riproponevano, con la forza di immagini brutali nel loro straordinario realismo, i brividi e la maledizione di incubi ancora troppo recenti: la guerra, i bombardamenti, i cumuli di macerie. Tra case sventrate, fango e detriti, si muovevano, simili a fantasmi, individui dai vestiti laceri e lo sguardo spento, donne scarmigliate coi bambini in braccio, anziani che erano riusciti a rialzarsi dalla tragedia di due conflitti mondiali e adesso apparivano come spezzati dal peso della sciagura. Dal sudario di fango, una massa grigia che un dio malvagio aveva scagliato, furente, su via Roma spuntavano le ruote di una Giardinetta poggiata su di un fianco, un finestrino ancora aperto. Una bambola di pezza. I resti di una misera cucina economica. Le povere, eppur calde e dignitose, cucine del dopoguerra. La voce impostata, il tono accorato, lo speaker della Settimana Incom dipanava lento il filo dell’angoscia:

«È stata una notte di ossessione e di terrore. Come un’immersione nell’inferno, con l’acqua al posto del fuoco (…)». (Settimana Incom)

Lo sgomento di Alfonso Gatto

di fronte al monte delle acque

L’acqua, elemento primigenio con il quale Salerno e la Costiera avevano millenaria dimestichezza, in una notte da tregenda aveva mostrato alla città il suo volto più carogna, traditore. L’acqua del Fusandola, gonfiato da 500 mm di pioggia caduti tra il pomeriggio di lunedì 25 ottobre e l’alba tragica di martedì 26, aveva travolto il cuore antico di Salerno. L’aveva investito in pieno, prima schiaffeggiando le vecchie mura delle case, poi sradicando tutto ciò che aveva incontrato lungo il tragitto. Anche l’antica chiesa di San Gaetano a Canalone, il quartiere da dove era partita la corsa impazzita che si era biforcata, come deviata dalla mano della Vergine, all’altezza dell’Annunziata: un fiume di fango aveva preso la strada del Teatro Verdi, invadendo i giardini comunali e tracimando sul lungomare, un altro troncone aveva imboccato via di Porta Catena, portando morte e devastazione nel Decumano inferiore.

Il poeta Alfonso Gatto, folgoranti le sue “istantanee” sulla tragedia

«Ho cercato invano di telefonare a mia madre. Il telegrafo si ferma a Napoli, mi hanno detto. Migliaia di telegrammi, di piccoli soldati, di piccoli barbieri, di piccoli giornalisti, di piccoli impiegati, di piccoli avventurieri – siamo tutti piccoli, vero? – aspettano di varcare il monte delle acque. Non si passa. Da Castellammare fino ad Amalfi, forse: ma da Maiori a Capo d’Orso e attraverso le montagne per la Sella di Chiunzi che appena un mese fa correvo in uno dei più dolci pomeriggi di questa mia ultima vita, non si passa. Ci sono i morti che non aspettano più notizie, ci sono le acque, il fango, il silenzio. Salerno è un nome, il nome del ’43, il nome dello sbarco: un golfo, ove tanta civiltà è passata e la morte sta di casa per renderle più inaspettata e nuova la vita di ogni giorno (…)». (Alfonso Gatto, “Dolore per la mia terra”, Epoca)

L’acqua del Bonea aveva spazzato via l’abitato di Molina, modificando per sempre la conformazione della Marina di Vietri. E quella del Reghinna Major dai Lattari si era abbattuta con furia inusitata sulla cieca presunzione degli uomini che ne avevano ostruito il corso. Allora come ora, come sempre: l’acqua si era ripresa quello che l’uomo, nella sua stolida smania di dominio sulla natura, le aveva sottratto, comprimendone lo spazio vitale.

«‘È il finimondo per i nostri peccati’, disse Michelina Gargano alzandosi dal letto per chiudere le imposte che il vento aveva scaraventato contro il muro in una raffica di pioggia. Mormorando un’Ave tornò al calduccio pensando che, al mattino, le sarebbe toccato asciugare l’acqua che si era infiltrata dalle imposte. Al n. 49 di Canalone, Alfredo Pappalardo fu sbalzato dal tavolo sul quale, in piedi, si era rifugiato con la moglie e i due bambini e la fragile arca di salvezza fu scaraventata nel vuoto attraverso le mura squarciate. A venti chilometri di distanza, nei pressi di ponte Surdolo, sulla statale 18, l’operaio Pasquale Sarno, in una casetta in tufo a ridosso della montagna, nella quale si erano raccolte altre 35 persone, a quel boato si segnò e tutti i suoi compagni caddero in ginocchio a pregare restando sepolti dalla lava di terra e di fango che lo strozzò alla gola fino all’alba. (…)». (Aldo Falivena, “Morirono abbracciati”, Il Giornale)

Per l’Italietta agricola, centrista e cattolica apostolica romana, filoamericana, spaventata dall’orso sovietico e dai venti di guerra che avevano ripreso impetuosi a soffiare, con la paura di nuovi orrori sottopelle ma libera e spensierata nelle sue gonne a fiori, le calze di nylon e le prime giacche di tweed, quelle immagini rappresentavano, in fondo, un drammatico dejà vu e un avvertimento. Sembravano spuntare, quei fotogrammi, dalle telecamere dei soldati alleati, che dopo lo Sbarco, solo 11 anni prima, avevano immortalato le ferite della guerra. E avvisavano i più ottimisti che la ripresa tanto sognata, invocata, agognata, preconizzata dagli economisti e dai cosiddetti “programmatori” alla Ezio Vanoni che proprio in quei mesi andava elaborando il suo celebre “Schema”, avrebbe avuto dei costi. Talvolta tremendi da sopportare. Si disse e si scrisse che il Fusandola aveva seminato terrore e morte perché a monte, dove sgorga proveniente chissà da quale infernale anfratto tra Salerno e Cava, era stata realizzata una straordinaria opera di disboscamento, probabilmente per scopi edificatori.

Fasci di luce sinistra

illuminavano il fango

«San Liberatore sotto la roccia nuda della vetta mostra lo scivolo terroso delle frane, lo strappo delle valanghe. Meraviglia chi è nato quaggiù che il verde di cui verzicava traendo vigore dalla sua stessa ampiezza abbia ceduto come una placca posticcia, non senza trarre dal suo raschio disperato il segno di un’ultima resistenza al diluvio. La lunga spiaggia di via Ligea e, più in là, il mare teso sotto gli strapiombi, hanno raccolto le sue vittime. Sulla strada che da Salerno porta a Vietri, caduta un’arcata del ponte che ne reggeva il tracciato in quell’area svolta, le case a ridosso della montagna, investita alle spalle, portano ancora oggi sino alle finestre l’ondata rafferma del fango. A guardarle dalla spiaggia cinquanta metri più sotto, alla luce dei riflettori che di notte assistono il lavoro degli sterratori, al rullio ossessivo di un ponte di ferro di fortuna teso sulla voragine, le case spalancate nelle poche mura che restano a testimoniarle tentennano in una luce sinistra. (…)». (Alfonso Gatto, “La malanotte di Salerno”, Epoca)

Scene di una tragedia che sconvolse l’Italia intera

La Penisola, terra tra le più antiche e sfruttate, si confermava friabile come i Pavesini, la cui pubblicità, introdotta dal faccione giocondo di un neonato, campeggiava sulle pagine di tutti i quotidiani dell’epoca. Solo tre anni prima, nel fatale 1951, c’erano stati il Polesine, 87 morti e 150mila senzatetto, e la Calabria, 72 morti e 10mila senzatetto. Ma l’analisi non rientrava nei compiti dell’anonimo speaker dalla voce impostata, che doveva commuovere, non far ragionare:

«Il Reghinna Major, il Bonea, il Fusandola, Canalone, hanno spinto le vittime in mare, che verso sera, con il vento di libeccio, ha restituito i corpi». (Settimana Incom)

Trecentosedici morti

quattrocento i feriti

Alla fine di vittime se ne sarebbero contate complessivamente 316: 106 a Salerno, 117 a Vietri e frazioni (Molina, Marina, Albori), 31 a Cava e frazioni (Alessia, Marini), 34 a Maiori, 3 a Minori, 35 a Tramonti. Ma i dispersi furono decine, e quasi 400 i feriti. Cifre che contribuivano a disegnare il perimetro di una delle più gravi catastrofi naturali della prima parte della storia repubblicana.

I racconti dei sopravvissuti riempirono le cronache dei grandi inviati. Fece il giro d’Italia la storia di una neonata, narrata con voce commossa dal poeta.

«La bimba Eleonora De Simone, piange tra le braccia dell’assistente Umberta Gasparini di Pola, una signora linda che le fa da mamma. La sua vera mamma, Fernanda Romeo, e mamma di altri sette figli, di cui il più grande ha dodici anni, è detta “dispersa”, è una morta cioè che non avrà mai pace nella tomba. È sola dopo aver creato tanta vita dalla sua vita. Il padre, Alfredo, piccolo possidente e autista, ricorda che quella notte a Canalone egli portò in salvo i figli a due a due: la moglie con la bimba Eleonora le avrebbe tratte per ultime dall’altra parte. Tre volte passò il fiume ruinoso. Tornava per l’ultimo viaggio, stessero in quell’angolo incollate al muro, non si muovessero. Nella tenebra chiamò, tese le braccia, non sentiva più il pianto insistente di Eleonora che prima, pur tra il clamore del diluvio, riusciva a percepire e quasi a vedere come un lumino che gli mostrasse la strada. Non c’era più nessuno. Solo Eleonora, all’alba, fu trovata miracolosamente all’asciutto. Forse la mamma, nell’istante in cui fu rapinata dalle acque, riuscì a lanciare la sua bambina nelle braccia di chi vicino, a tentoni, l’andava cercando. Per la prima e per l’ultima volta seppe che a staccarla da sé, la sua creatura sarebbe vissuta. (…)». (Alfonso Gatto, “La malanotte di Salerno”)

L’alluvione aveva colpito duramente una città, Salerno, che in quel momento non aveva nemmeno un sindaco regolarmente in carica. L’avvocato Francesco Alario, ex “sciarpa littoria” scampata alla Commissione per l’Epurazione, di rinnovata fede monarchica nel dopoguerra, nel 1952 era succeduto al collega Mario Parrilli, ma era stato dichiarato decaduto a maggio del 1953, in seguito al ricorso presentato da due consiglieri non eletti che avevano denunciato irregolarità alle amministrative dell’anno prima.

Il presidente Luigi Einaudi

conforta un giovane ferito

Ad accogliere il Presidente del Consiglio (e ministro degli Interni) Mario Scelba a capo di un tripartito centrista Dc-Psdi-Pli con vicepresidente Peppino Saragat, il ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita e quello alla Cassa per il Mezzogiorno, Pietro Campili, prontamente accorsi in città, «a recare conforto ai feriti all’ospedale Ruggi d’Aragona e ai superstiti nelle zone colpite dalla sciagura», scandiva solenne lo speaker della televisione di Stato, fu un commissario prefettizio: il conte Lorenzo Salazar, il quale non abitava nemmeno a Salerno, e la notte dell’alluvione era stato tirato giù dal letto, prim’ancora che dalla telefonata istituzionale del prefetto, da quella del segretario generale del Comune, il commendator Alfonso Menna, il primo ad accorgersi che si stava scatenando l’inferno.

«Mentre usciamo [dall’ospedale Ruggi] ci imbattiamo nel piccolo corteo che fa seguito al Presidente del Consiglio Scelba ed ai ministri Romita e Campili, che hanno già compiuto il giro dei padiglioni, e ora si accingono a uscire. Uno stuolo di suore dalla cuffia inamidata, di medici in camice bianco, di frati dalla lunga barba si stringono intorno al ministro Campili. Cosa gli dicono? Penso che i medici stiano parlando delle vittime dell’alluvione e mi avvicino per sentire. No, non stanno parlando delle vittime. Parlano dei problemi del loro ospedale in periodo normale, in “tempo di pace”. L’ospedale di Salerno ha 300 posti soltanto: ed è l’unico ospedale in una provincia con un milione di abitanti. 0,7 posti per ogni mille abitanti. Un gabinetto ogni 60 malati (…)». (Gaetano Tuminiati, “L’unico ospedale della provincia di Salerno non basta nemmeno ai feriti della città”, Avanti!)

Il centro storico di Salerno e la Costiera sfigurati dalla furia dell’acqua

Quattro giorni dopo la tragedia arrivò il Capo dello Stato, un compunto e commosso Luigi Einaudi, ripreso dalla televisione di Stato mentre varca il portone del Municipio. Interrotto ogni collegamento ferroviario da e per Salerno, il convoglio presidenziale era stato fatto fermare a Nocera Inferiore, da dove Einaudi aveva proseguito il viaggio a bordo di una vettura della Prefettura.

Ancora una volta era il poeta a cogliere il lato più umano e toccante della “visita di Stato”, affidando un piccolo, accorato, bozzetto alla rivista che l’aveva inviato sul luogo del disastro a raccontare la sua terra ferita a morte.

«Nella sua visita agli Ospedali Riuniti di Salerno il Presidente della Repubblica, al letto di un alluvionato ferito e col femore spezzato, il ragazzo di 14 anni Gennaro D’Amico, ebbe a dire: “Sta’ tranquillo, con i moderni mezzi di cura, tu guarirai. Non resterai zoppo come me. I funzionari al seguito si sentirono in dovere di invitare i giornalisti a non riportare nei propri resoconti la frase umana e buona con cui il vecchio Presidente, come un nonno, aveva cercato di consolare il povero ragazzo vittima di una sciagura più grande di lui. Eppure, avendo deciso comunque di interferire nel lavoro dei giornalisti cui solo spetta il compito e la responsabilità di scegliere le notizie per i lettori, i funzionari al seguito avrebbero dovuto semmai chiedere che alla frase del Presidente venisse dato quel risalto che merita in un Paese come il nostro in cui venti anni di dittatura hanno abituato gli italiani a considerare i capi della cosa pubblica indenni da ogni infermità e da ogni imperfezione. In una storia tutta presente, in cui altri dittatori lustri di belletto e di cipria, ugualmente ridicoli e infallibili, credono di affidare all’ottimismo della propria maschera il segreto di un’autorità tutta fisica che poggia peraltro sulle polizie segrete e sulle spie, l’esempio del Presidente che cerca tra sé e il povero ragazzo ferito un punto di incontro nella comune imperfezione è prova di una superiore civiltà umana (…)». (Alfonso Gatto, “Zoppo come me”, Epoca).

Qualche giorno dopo la visita del Presidente galantuomo fu il turno di Claire Boothe Luce, l’ambasciatrice d’America impegnata in quegli anni, anche attraverso una feroce campagna anticomunista e antisocialista, a rafforzare i “solidi legami di solidarietà e fratellanza esistenti tra il popolo americano e quello italiano”. Dietro di lei, nelle immagini della Settimana Incom, la sagoma inconfondibile del Commendatore, ormai pronto a spiccare il grande salto. La malanotte apparteneva già al passato. Il futuro di Salerno, città della quale Guido Piovene avrebbe scritto un gran bene nel suo “Viaggio in Italia”, compiuto tra il 1953 e il 1956 (“Qui veramente cadono molti luoghi comuni sull’Italia meridionale. L’aspetto è infatti quasi settentrionale, e la pulizia quasi svizzera”), andava già delineandosi alle spalle dell’arcigna rappresentante del “Paese fratello”. Cominciava un’altra fase, che prendeva le mosse proprio dalla faglia, emotiva e politica, apertasi nella storia della città in quelle ore tragiche di pioggia torrenziale e terrore. Ma questa è un’altra storia.

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