Il fenomeno delle migrazioni riguarda il 3,6% della popolazione di tutto il mondo: è l’attuale stima globale. Una percentuale apparentemente quasi del tutto insignificante; eppure la percezione dei numeri appare ben diversa. Complice la narrazione politica e mediatica, le migrazioni diventano un problema capace di mettere in crisi le identità nazionali più che un fenomeno strutturale o un bene pubblico mondiale. Forse si giustificano anche così i 68 muri eretti nel mondo o l’eccessiva attenzione mediatica e politica al “problema” delle migrazioni.
I dati sono stati snocciolati all’Università di Salerno da Catherine Wihtol de Wenden – politologa, direttrice di ricerca presso il CNRS, Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese, studiosa di migrazioni internazionali – nel corso di un incontro promosso nell’ambito degli studi dottorali e del percorso di eccellenza del Dipartimento Studi Umanistici (responsabili scientifici i docenti Silvia Siniscalchi e Pierluigi De Felice). De Wenden, che è stata anche presidente del gruppo di ricerca “Migrazioni” dell’International Sociological Association, e consulente dell’OCDE, del Consiglio d’Europa, della Commissione Europea e di altre istituzioni internazionali, è autrice di numerose pubblicazioni sul tema.
Le migrazioni fanno parte della storia del mondo. Il fenomeno è chiaramente globale: coinvolge la maggior parte dei paesi che diventano luoghi di partenza, di accoglienza e di transito. Dalla fine del XX secolo, si assiste a una sorta di democratizzazione delle migrazioni: con l’accesso generalizzato al passaporto il diritto di uscita sembra estendersi; ma a fare da contraltare c’è una restrizione drammatica del diritto di ingresso. È il periodo dei visti per entrare e la mobilità è considerata come rischio e non come fenomeno strutturale.
Ecco, dunque, che la distribuzione iniqua del diritto a emigrare genera nuove disuguaglianze, specie se la mobilità è un modo per sfuggire alla povertà o al malgoverno del paese cui si appartiene. In questo contesto anche le politiche repressive dei governi finiscono per non avere un effetto dissuasivo, specie quando l’interlocutore non ha speranze di vedere cambiata la propria condizione nel paese d’origine. I dati narrano di differenze enormi per le politiche migratorie tra nord e sud del mondo. Il Mediterraneo – e le cronache quotidiane lo evidenziano – resta la zona in cui la mobilità è tra le più importanti. La prima destinazione migratoria a livello mondiale sono gli Stati Uniti d’America, seguiti a ruota dall’Europa. Si tratta di numeri riferiti alle migrazioni legali ed “esterne”: c’è una consistente fetta di popolazione che migra all’interno della propria regione di appartenenza, i cui numeri, invece, vanno ancora quantificati. E poi ci sono da considerare i 6 milioni di apolidi, persone senza cittadinanza, e i cosiddetti transmigranti, coloro che non sono riusciti ad arrivare dove volevano e che non sono tornati indietro.
Ma come si può coniugare il liberalismo economico con il fatto che buona parte della popolazione non può migrare come/dove vorrebbe? Con ogni probabilità è questa la sfida della politica a livello mondiale per i prossimi anni. Senza dimenticare che un mondo senza migrazioni sarebbe probabilmente ancora più ricco di disuguaglianze: con una zona più opulenta e “vecchia” e un’altra con una popolazione giovane e povera.