Armando Bisogno: il patrimonio culturale non può restare nelle aule universitarie

Incontro con il nuovo direttore del Dispac dell'Università di Salerno: filosofo, umanista, “Italocalvinista della parola” come ama definirsi, illustra la necessità del dialogo dei docenti al di fuori della comunità accademica. Un ruolo nuovo e più impegnativo, alla luce delle esigenze della società e in particolare dei giovani allievi e studiosi. «Un umanista ben formato è un potenziale protagonista nella vita della sua comunità»

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Il professore Armando Bisogno, nuovo direttore del DISPAC dell'Università degli studi di Salerno

Filosofo, umanista, “Italocalvinista della parola” – come si definisce nella sua biografia di Instagram – il professore Armando Bisogno che insegna – tra le varie materie – Storia della Filosofia Medievale, da anni, nella sua professione ma non solo, porta avanti una convinzione preziosa: i saperi umanistici sono alla base di una comunità e riguardano tutti i suoi membri. Superando gli spazi accademici e approdando in nuove dimensioni comunitarie – associazioni, scuole, piattaforme digitali – sta cercando, insieme al suo team, di creare relazioni e valore sul territorio salernitano. Da pochissimo è stato eletto come nuovo Direttore del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale (DISPAC), subentrando al prof. Luca Cerchiai, ruolo di cui è molto entusiasta.

Da ottobre subentrerà come Direttore del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale (DISPAC). Quali sono gli obiettivi e i cambiamenti che prevede per il prossimo futuro?

Credo che il punto di partenza sia il potenziamento di un percorso già avviato dalla precedente direzione e una presa di consapevolezza come docenti che si occupano del patrimonio culturale che siamo tutti collegati da un elemento: le testimonianze dell’umano. E questa cosa non può restare solo all’interno delle aree universitarie, ma deve necessariamente dialogare con i luoghi in cui il patrimonio c’è. L’obiettivo è soprattutto quello di mostrare al di fuori della comunità accademica qual è il nostro ruolo. Un dipartimento non può e non deve entrare nel merito di quello che fa un singolo docente con i suoi studenti; tuttavia, ciò che può fare è cercare di gestire la vita amministrativa e aiutare il dipartimento a trovare e promuovere una identità comune e farla crescere.

Come è stato il suo primo incontro con la filosofia e perché ha scelto poi di insegnarla?

Il mio primo incontro con la filosofia è stato un po’ complesso nel senso che, quando ero al primo anno di liceo, in estate, mi sono ammalato, ho passato diversi mesi tra continui ricoveri e non ho potuto cominciare subito a studiare filosofia e casualità ha voluto che avessi una zia che insegnava filosofia e che mi faceva ripetizioni private. Un po’ questo tipo di racconto così colloquiale e privato, un po’ i meriti dei miei professori mi hanno portato a sviluppare questo interesse perché mi sono accorto di una propensione per le materie umanistiche e una prospettiva critico-analitica più che storico-documentale. L’incontro, insomma, è stato particolare e da quel momento in poi, nell’arco del liceo, ho sviluppato sempre di più questo interesse.

Quale è stato il suo percorso di studi e quale è il suo background culturale?

Ho frequentato la facoltà di Filosofia alla Federico II di Napoli e mi sono laureato con la professoressa Valeria Sorge. Dopo la laurea ho provato alcuni concorsi di dottorato ma erano tutti generalisti in Italia, non c’era un dottorato in Storia della Filosofia Medievale, che era ancora una competenza troppo specifica. Poco tempo dopo la laurea a Salerno con il prof. Giulio D’Onofrio è stato fondato un dottorato in Storia della Filosofia Medievale e quindi a due passi da casa ho trovato l’occasione perfetta tanto più che il professore era un esperto degli argomenti di cui mi occupavo. Tra l’assegno di ricerca e il ruolo da ricercatore, ho insegnato nei licei tra Villaricca e Salerno e quella è stata un’esperienza straordinaria, umanamente e professionalmente, perché abituarsi a portare la filosofia in un contesto come quello di un liceo ti permette di arrivare all’ambiente universitario ed essere ancora più a tuo agio: inoltre è stato un corso intensivo di public speeching. Ho poi vinto il concorso all’ università e continuato la mia attività accademica a Salerno.

Su Instagram si definisce “Italocalvinista della parola”. Che cosa significa?

Io credo che tutti quelli che si occupano di materie umanistiche abbiano velleità letterarie. Negli ultimi mesi anche io ho pubblicato un romanzo (ndr. Terapie, 2024, De Tomi Editore), ma ho dovuto tutelare questa barriera di Italocalvinista, quella che ho incontrato quando ho letto Calvino che è per me, ma non solo, un esempio di come usare nella maniera più aderente al pensiero la lingua, in particolar modo ne “Le città invisibili”. Calvino esprime in parole perfette i concetti. Dopo essere rimasto per molto tempo dietro questa barriera di perfezione calviniana senza riuscire ad oltrepassarla, sono arrivato alla conclusione che la scrittura è artigianato: scrivere, rileggere, limare non è un flusso, ma un lavoro artigianale. Quel tipo di arte che si impara con la pratica.

Nel 2022 prende vita il progetto Youmanities, come è nato e come si è evoluto?

Il progetto Youmanities è la parte operativa di un PRIN reso possibile da un finanziamento ministeriale che coinvolge tre università: Salerno, Napoli e Catania. A Salerno è nato Youmanities che vuole, sostanzialmente, difendere, affermare e dimostrare il valore intrinsecamente comunitario di tutti i saperi umanistici che raccontano pezzi, pensieri, emozioni di un essere umano. Anche un reperto archeologico esprime il desiderio di un uomo di vivere in una casa e costruirla in un certo modo. Il pronome “you” significa proprio questo: i saperi umanistici riguardano tutti e non sono estranei a nessuno. Abbiamo organizzato una serie di eventi in questi mesi, soprattutto grazie al lavoro del professore Davide Monaco, ma anche gli altri componenti del team il professore Renato De Filippis e la dottoressa Raffaella D’Urso. Abbiamo tentato di portare le nostre competenze in contesti extra-accademici come scuole, piattaforme, mostre, associazioni. Abbiamo provato a vedere che effetto fa quando portiamo queste competenze all’esterno. Il 9 ottobre prossimo ci sarà un evento di racconto all’università per fare il punto su ciò che si è fatto nel corso dell’ultimo anno.

Questo è il secondo anno di vita del progetto, è un anno di maturità in cui scegliere la strada da perseguire per fare attività ancora più intense. Il nuovo progetto che intendiamo realizzare è in collaborazione con i docenti di ogni ordine e grado. Ci sarà un primo incontro di conoscenza ad aprile e il 17 ottobre inizieremo a creare questo gruppo di lavoro con l’intento di mostrare ai colleghi di cosa ci occupiamo e riflettere su se e come queste tematiche sono declinabili. Saranno in tutto cinque incontri laboratoriali. Crediamo che questo sia il modo migliore per mettere in relazione le persone.

Nel 2023 è uscito il suo libro “Il racconto fragile”. Ce ne vuol parlare?

Si tratta di un commento di tutte le confessioni di Agostino ed è in qualche modo il succo del corso che ho tenuto su Agostino l’anno scorso all’università. Ho voluto scrivere questo libro perché mi è saltato agli occhi, per una questione di coincidenza con una particolare situazione personale di quel periodo, quello che è il nucleo prezioso di questo testo: la confessione dei propri peccati quando è appena diventato vescovo e quindi ha raggiunto il proprio apice. Mi affascinava il fatto che appena arrivato al vertice lui decide di sciorinare i suoi peccati e la consapevolezza della propria e dell’altrui fragilità che è l’unica cosa che fa stare in piedi le comunità. Il testo è utile sia per quello che dice – è un invito ad un sano esercizio dell’essere comunità, costruire insieme, confrontarsi – ma anche perché era il segno di come sia possibile mettere a disposizione le nostre competenze ad un pubblico più ampio, anche perché non è scritto in “accademichese”.

Che consiglio darebbe ai ragazzi che iniziano questo percorso di ricerca?

Quella che viviamo è una stagione incredibilmente ricca e piena di opportunità per chi studia bene tutte le materie umanistiche perché c’è grandissimo bisogno di capacità critica ed espressiva nel dibattito pubblico: scegliere le parole giuste, sapere come muoversi in una comunità dialogante sono tutte cose che le materie umanistiche insegnano alla base. Un umanista ben formato è un potenziale protagonista nella vita della sua comunità. Un altro aspetto importante è che la filosofia in particolare si pone come metodo di lettura della realtà e la nostra realtà è così complessa che richiede una grande apertura. Direi ad uno studente di filosofia che, se non passa tutto il suo tempo a cercare di capire l’intelligenza artificiale, le dinamiche social e le nuove tecnologie sta perdendo tempo. Abbiamo il dovere di leggere la realtà e restituire una lettura chiara e trasparente agli altri.

 

Martina Masullo

Giornalista, social media manager e dottoranda di ricerca in Politica e Comunicazione (Policom) presso l'Università degli Studi di Salerno. Collabora con le cattedre di Sociologia dei processi culturali, Media classici e media digitali e Sociologia dell'immaginario tecnologico. Si occupa di audience studies, innovazione nella digital society, fake news e cancel culture

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