È vero, i libri erano super-cose, oltre alla materialità delle altre cose e all’energia che potevo immettervi io erano titolari di un’energia tutta loro, quella che vi aveva immesso l’autore, quella che vi si riverberava dalle innumerevoli letture delle genti, quella che vi emanava dalla tradizione e dal canone… Ma era giusto, in nome di tanta aristocrazia, misconoscere le cose (le mie!), abbandonarle come zavorra nei flutti? I miei quadernini, le mie penne… le targhe, le placche… le carte da gioco, le biglie, i cubo cristalli… quel certo scatolino, quel certo coltellino… piccoli manufatti, rettili mummificati… soldatini dipinti, i primissimi Cocco Bill… Un momento! Michele Mari, Locus Desperatus, Einaudi, pag. 131.
Ecco, c’è di più di un attaccamento alle cose alle quali, chi più e chi meno, noi tutti siamo legati indissolubilmente. Ed è questo: le cose ci appartengono e noi apparteniamo alle cose, fanno parte della nostra identità come siamo noi a dare identità alle cose. Senza le mie cose, scrive il protagonista di quest’accattivante e fantasioso libro manganelliano, io non sarei stato più io, e senza di me loro non sarebbero state loro. A dare l’avvio a questo struggente rapporto, dove le cose sono in procinto di abbandonarci o dove siamo noi a lasciare le cose, è una piccola croce disegnata sulla porta di un appartamento che sembra debba essere mollato, ceduto smesso. O espropriato, sottratto, tolto. Da chi, non importa. Di sicuro, il segno della croce designa un eletto, un investito, un deputato, insomma, qualcuno o chiunque. Tutti alla fine lasciamo! Non è forse questa un’amara quanto metaforica evidenza? O un indiscutibile e implacabile significato, senso. Restiamo alla storia. L’uomo, proprietario dell’appartamento, – ma è proprio così? O è l’appartamento a essere il proprietario dell’uomo? – cancella la croce, ma il giorno seguente, e poi quello ancora successivo, il segno ricompare inesorabile. Il mistero s’infittisce quando al residente è imposto uno scambio: qualcuno occuperà il suo posto, e lui dovrà inevitabilmente trasferirsi. Ma cambiando abitazione l’uomo sarà costretto a cambiare anche identità? Sarà ancora lo stesso senza le sue cose? E le cose dentro l’appartamento saranno in grado di scegliere o saranno scelte? Alcune, magari, non occuperanno il posto di privilegio che avevano prima. Alcune, magari, saranno cacciate brutalmente, altre vendute come si vendevano gli schiavi, gli oppressi, i deboli, altre occuperanno altre posizioni, altri luoghi. Insomma, niente sarà più come prima. Forse, è il normale decorso delle cose e del tempo. Forse, è la magnifica introspezione e fantasia della letteratura. Ma come assomiglia alla funesta vita di chi alle cose dà o dalle cose riceve. Che cosa? Affezioni, per esempio. Nostalgia. Passioni. Tempo. “Quel tuo Piranesi, è quasi sempre stato in una collezione privata, poi chiuso in casa di tuo nonno, poi chiuso in casa da te, quante persone vuoi che lo abbiano visto?”. E adesso, si chiede il lettore, dove finirà? Chi ne avrà cura? Ne avranno cura i nuovi possessori? Così è lo stesso de “Le Deche di Tito Livio tradotte da Jacopo Nardi, in Venetia, Giunti, MDXL… le prime edizioni della Magia Naturale del Della Porta, dell’Ossian, del Dei delitti e delle pene, del Misogallo, dell’Ortis, dei Canti Orfici, per non parlare di certe aldine , di certi Bodoni…”. Di sicuro abbiamo a che fare con un locus arredato con grande godimento e gusto. Il proprietario è un collezionista esigente quanto ossessionato e delirante. Paranoico? Ma chi colleziona, cosa colleziona? Oppure, chi colleziona è veramente interessato agli oggetti, siano essi manufatti artistici tipo libri, quadri, ceramiche, lampade, scatole, francobolli, fotografie, soldatini, carte da gioco, o corpi di altro tipo come pietre, farfalle, insetti, o altro che si trova in natura? In realtà, è difficile capire cosa si accumula sostanzialmente, ma è pur vero che ciò permette la conservazione di un passato come l’umiliazione di un presente che non esiste. Forse, ha ragione quel grande filosofo che fu Giorgio Colli quando affermava che vivrebbe solo il passato e non può esistere che ciò che è trascorso, accaduto, fermato. “Mai!” urlai. “Non mi libererò di nessun oggetto, nemmeno il più vile! Ci difenderemo insieme e insieme, se lo vorrà il fato, cadremo. E vi avverto: il primo di voi che mi farà ancora discorsi simili lo venderò all’istante, anzi: lo svenderò, a sua umiliazione e a monito per tutti”. L’inquietudine, il tormento, l’ansietà, come si desume è totale. Gli oggetti non sono altro che il nostro interlocutore privilegiato. Il nostro io disgregato da un presente che è insieme impossibile e improbabile. Del presente si può avere solo una fede mentre il passato è lì, fermo, stabile nella sua spietata ma autorevole corposità, materialità, evidenza tattile: la più evidente delle realtà. La letteratura, allora. O una maledizione. Oppure entrambe.
Il libro di Mari, allora si presta a una discesa negli inferi della memoria e dei ricordi. Della malinconia! Quando è arte, la letteratura non può che essere nostalgia! Tuttavia è anche divertimento, allegoria, complessità. Infine, una calata negli abissi. O della possibile scrittura di un immaginifico mondo delle cose impossibili. Tutti i cammini, a conti fatti, sono come case, locus desperatus in cui si compongono inventari che volutamente vogliamo trattenere ma anche distruggere. “Ridotto così, ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particula”. Essere sovrani delle proprie cose e nelle proprie cose, sapendo che apparteniamo e siamo riguardati, e toccati, vissuti da esse. Perché, ogni oggetto amato ha un’anima, e dunque una sua volontà. O verità! Ovviamente, e la scrittura di Mari ne è la più fertile delle evidenze, il libro ha una sua sequenza misteriosa, oscura, impenetrabile e colta. Ci si diverte. E si riflette intensamente sulla vita, sulle cose e su quel piccolo mondo che pensiamo ci appartenga, quando invece pare più probabile che siamo noi ad appartenergli. È il dono che ci fa la letteratura, quella buona. E quella di Mari lo è. E noi gli siamo grati di questa sua compilazione, grafia, attenzione.
Michele Mari, Locus Desperatus, Einaudi, pag. 131
Gli ultimi libri di Michele Mari pubblicati da Einaudi sono Leggenda privata (2017), Dalla cripta (2019) e Le maestose rovine di Sferopoli (2021)