Il paradosso della tolleranza, rovesciato come un arcano maggiore in una lettura di tarocchi: questo il filo conduttore di “Amal”, terzo film presentato in concorso a Giffoni 54 per la sezione Generators +18. In sala anche il regista Jawad Rhalib, per il confronto con i giurati.
La storia racconta di Amal (Lubna Azabal), una docente di letteratura francese in una scuola superiore di Bruxelles, che cerca di creare coesione sociale in una classe in cui sono presenti allievi appartenenti a religioni diverse. Tutto cambia quando una studentessa, Monia, viene presa di mira per il suo orientamento sessuale o presunto tale – e la situazione degenera quando la ragazza fa pubblicamente coming out sui social in un momento di vulnerabilità, e la professoressa sceglie di supportarla anche in classe, facendo leggere agli studenti brani di Abu Nawas, poeta arabo-persiano dell’VIII secolo a.C. che ha scritto di omosessualità e piaceri terreni.
Le dinamiche di classe descritte in “Amal” sono lo specchio di una superficialità degli adulti e del mondo della scuola nella valutazione della capacità di fare del male che è innata nell’essere umano a prescindere dall’età e dagli intenti. C’è una frase, in particolare, che la professoressa Amal pronuncia a seguito dell’ondata d’odio che colpisce tanto Monia quanto lei nei giorni successivi al coming out della ragazza: «Nessuno interverrà finché qualcuno non sarà morto». Ed è questo il grande paradosso del rapporto che le autorità hanno con il bullismo e con la percezione della violenza giovanile: si sceglie consciamente di non intervenire finché non è molto (o troppo) tardi, specificamente perché c’è la necessità di proteggere le persone violente quando sono spalleggiate dalla giusta autorità, o quando la persona colpita da violenza è ritenuta “meno” rispetto al gruppo dei pari, se non addirittura un elemento di fastidio – e nel film sono presenti entrambi gli scenari.
Alcuni membri del corpo docente nel film non soltanto chiudono gli occhi, ma diventano conniventi con gli studenti più intolleranti, continuando ad alimentare una spirale d’odio profondo che arriverà a travolgere le persone più fragili. Il docente che più contribuirà a creare questo caos ha l’aspetto di qualsiasi altro docente, a simboleggiare il pericolo di questo male che si annida anche nei luoghi più insospettabili: un docente è tenuto per etica professionale ad essere super partes rispetto alle relazioni interpersonali degli allievi, eppure nel momento in cui una studentessa ha bisogno del supporto di adulti che possano aiutarla a sostenere l’assalto del gruppo dei pari alcuni docenti danno invece man forte al branco, sminuendo la gravità delle offese per poi arrivare a sminuire la gravità delle percosse e delle campagne d’odio sui social.
La percezione che i ragazzi hanno delle proprie azioni non è meno distorta: si minimizza, si riduce tutto ad uno scherzo anche nel momento in cui la vita di una compagna di classe è messa a repentaglio, si cerca di creare un “bilanciamento” trovando false provocazioni nelle parole di una persona che al netto della capacità di tenere testa alle offese è una vittima.
Il quadro dipinto da “Amal” è un quadro tristemente universale, che ha a che fare tanto con le identità LGBTQ+ che con le differenze religiose, e in misura minore anche con i corpi non conformi. Il film si pone come denuncia cruda alla reale perversione diffusa in maniera così capillare nella società: l’idea che un comportamento discriminatorio non vada contenuto o punito fintanto che non c’è sangue visibile versato.