L’idea di una realtà esistente oggettivamente, accessibile allo spirito umano è filosoficamente insostenibile, almeno da 200 anni. Già Gianbattista Vico avrebbe sostenuto che il lavoro scientifico consiste nel “comporre in bell’ordine le cose”. In un senso del tutto analogo si espresse Kant: “tutto quanto l’errore consiste in questo: che noi confondiamo il nostro modo di determinare o dedurre o suddividere i nostri concetti per determinazioni delle cose in sé”. E Jaspers diceva: “la sventura dell’umana esistenza comincia allorché l’oggetto della conoscenza scientifica è assunto come l’Essere in sé, e quanto non è scientificamente conoscibile è considerato come non esistente. Einstein, in un colloquio con Heisenberg, avrebbe detto già nel 1926: “è del tutto errato voler fondare una teoria soltanto su grandezze osservabili. Soltanto la teoria decide che cosa si può osservare”. Paul Watzlawick, Sul nonsenso del senso o sul senso del nonsenso, Morcelliana, pag. 126. Prefazione di Hubert Christian Ehalt.
Si tratta di due conferenze tematicamente legate tra loro, tenute dal noto Psichiatra della “comunicazione” presso il Municipio di Vienna, rispettivamente il 17 maggio 1989 e il 5 novembre 1991, che riassumono in una sintesi alquanto precisa ciò che lo stesso aveva sviluppato nei suoi libri più importanti e famosi. Ne cito qualcuno come “Pragmatica della comunicazione umana”, scritto con altri due studiosi: Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, Casa editrice Astrolabio, e “Istruzioni per rendersi infelici”, Feltrinelli. Due libri culto che hanno aperto prospettive notevoli per quanto riguardo l’uso di scoperte filosofiche e scientifiche applicate allo studio dei comportamenti interattivi e relazionali, nonché alla malattia psichica e alla psicoterapia attraverso l’uso della cibernetica, della logica, della teoria dei giochi o dell’informazione.
L’assunto da cui parte Watzlawick è, come traspare dal testo sopra citato, che non possa darsi nessuna definizione di realtà né in ambito filosofico, né in quello scientifico. In psichiatria, invece, si è continuato a mantenere quest’assunzione. Il criterio di normalità spirituale e mentale umana, scrive lo studioso, è l’adattamento alla realtà di un uomo. Chi vede realmente la realtà così com’è, è normale, e naturalmente lo sono i terapeuti… Ma la mancanza di una chiara definizione di normalità rende impossibile alla psichiatria la definizione di patologie. Lo specialista di ogni altro ramo della medicina è in una situazione migliore, sostiene Watzlawick, perché lì il medico ha un’idea molto chiara del normale funzionamento del corpo umano o dell’organo rispettivo. È quindi sensato parlare di patologia in medicina come insensato è parlare di malattia in psichiatria.
Watzlawick è lapidario: Nel caso della psichiatria abbiamo a che fare con l’essere uomo. E che cos’è l’uomo è alla fin fine una questione metafisica per la quale non è possibile alcuna dimostrazione. È il fallimento (debolezza) della psichiatria o il tentativo di una possibile costruzione di nuovi paradigmi che non sono nient’altro che la capacità d’individuazione di una realtà sempre in movimento nei suoi meccanismi interattivi e ricreativi, e sostanzialmente individuabili nella riscrittura del mondo in apparenza paradossale e senza senso? Watzlawick propone un cambio di prospettiva nella dimensione di un adattamento, considerato che la realtà, la normalità di ciò che riscontriamo, è sempre uno scarto da una complessità che non è dato cogliere nella sua interezza. Ma basta capire la natura insensata, assurda del mondo per salvarsi dalla malattia? La filosofia antica ci aveva fornito già prova del suo essere pharmakon, cura che per Parmenide era la risoluzione di quell’enigma che è l’essere nella sua paradossalità di ciò che si annuncia come velamento e svelamento. Alètheia. Tuttavia, anche la filosofia è una costruzione, e qui il discorso si complicherebbe ancora di più se all’assenza di fondamento di qualsiasi costruzione ce ne fosse un altro fatto appunto di adattamento. Obiezione. Adattarsi a cosa? Se non esiste nessun altro fondamento in che cosa consiste la costruzione di realtà? A quale realtà si riferisce il terapeuta, forse quella realtà che il senso comune ci dice che sia tale? O la proposta potrebbe darsi in (essere) un’ermeneutica continuata e trascritta e perfezionata di volta in volta magari, come propone appunto lo psicoterapeuta di Palo Alto, costruita in ciò che è una edificazione altra, più funzionale, più unificata o entificata.
Ecco cosa scrive Watzlawick ed è piuttosto chiaro. “Fintanto che le nostre costruzioni della realtà funzionano, viviamo una vita sopportabile. Quando le concezioni della realtà crollano, si può arrivare a quegli stati che sono di competenza della psichiatria, dunque: follia, disperazione, suicidi e altri ancora. Io non pretendo di fornire la verità alle persone che posso aiutare. Posso fornire loro soltanto un’altra costruzione che magari funziona meglio. Questo è tutto ciò che posso fare”. Così, a volte, il senso di un apparente nonsenso si dà con un semplice cambio di prospettiva, o di altre gradazioni dello sguardo. O, invece, all’inverso, si può ottenere proprio dal senso quel nonsenso miseramente evidente di una realtà insufficiente alle nostre attese ma capace di muoverci o di rasserenarci nell’interrogazione lieve e serena di ogni altra cosa del mondo. Le storielle, gli aneddoti, le arguzie sono di regola una spettanza dell’arte, e della letteratura in genere. Watzlawick ne fa largo uso a dimostrazione sia della natura prodigiosamente immaginifica della scrittura letteraria, quindi del tentativo di decifrare il mondo, sia della sua natura prettamente pragmatica, atta cioè a modificare la nostra visione o percezione delle cose. In altre parole, della capacità di provocare effetti relazionali o comportamentali. Non sono una novità, gli esiti terapeutici di un libro come non è originale il pericolo di una lettura. Il linguaggio della pratica terapeutica è così inteso non più come espressione ma come vera e propria arte della persuasione in grado di modificare una precisa (patologica?) sensazione del mondo, e ciò proprio attraverso l’uso non tanto di sofismi quanto di paradossi, giochi linguistici e prescrizioni. Certo, molto ci sarebbe da obiettare e riflettere, resta tuttavia il percorso di questo grande studioso, cioè l’aver spostato l’attenzione dalla soggettività alle relazioni tra soggetti, quindi famiglia, società, mondo. Un gioco comune, si direbbe, che come chiosa bene Aurelio Molaro nella postfazione a questo piccolo e condensato libro comporta una conseguenza fondamentale sul piano della clinica. E cioè “a essere bisognoso di cura non è più soltanto il singolo soggetto che manifesta determinati sintomi, ma il sistema nel suo complesso – familiare o di altro tipo – all’interno del quale egli si trova suo malgrado inserito”.
[Paul Watzlawick, Sul nonsenso del senso o sul senso del nonsenso, Morcelliana, pag. 126]
Paul Watzlawick (Villach 1921 – Palo Alto 2007), professore di Psicoterapia al Mental Research Institute e all’Università di Stanford, è stato uno dei maggiori esponenti della scuola di Palo Alto (California). Considerato tra i principali studiosi della comunicazione, ha pubblicato numerosi volumi tradotti anche in italiano tra cui il celebre Istruzioni per rendersi infelici (Feltrinelli, 2008).