70 anni fa, il 17 settembre 1953, usciva nelle sale italiane I vitelloni, secondo film di Federico Fellini, preludio del cosiddetto stile felliniano, suggestivo, amaro e fortemente autobiografico.
‘Vitellone’ termine di origine abruzzese indicava i giovani, figli del boom economico degli anni ’50, che trascorrevano le giornate a oziare senza lavorare, sguazzando nella noia provinciale. Sin dalla sua seconda fatica in solitaria, il regista omaggia la sua venerata Rimini che funge in questo caso da simbolo della provincia italiana degli anni ’50 in cui i cinque protagonisti, Alberto, Fausto, Leopoldo, Riccardo e Moraldo consumano le loro giornate tra bar, biliardo, feste di paese, amori futili e vaneggiando qua e là su una eventuale fuga verso un’ignota destinazione (Brasile, Milano, Roma), goffo tentativo di posticipare a oltranza una concreta presa di responsabilità.
In un’epoca in cui l’Italia del ‘boom’ sembra andare veloce verso un futuro nuovo e dinamico, Fellini pone l’accento su quella generazione di giovani uomini, molti di ritorno dalla guerra, immobilizzati nell’aurea mediocritas della provincia, inadeguati rispetto ad una stabilità futura e seppur ottenendola (come nel caso di Fausto) sono incapaci di mantenerla. I protagonisti non hanno intenzione di dirigersi verso una concreta stabilità, sono desiderosi e bisognosi ancora di attenzioni, riguardi, carezze da parte dei genitori, come se fossero ancora degli adolescenti, tuttavia il regista non li condanna, sembra avere uno sguardo compassionevole quasi empatico nei confronti della brigata di fannulloni, come se egli stesso fosse stato tentato dall’immobilismo della provincia. Se con un occhio superficiale il film risulta leggero e con slanci comici (la maggior parte dei quali regalati da un buffo Alberto Sordi), in realtà tra giornate passate al sole fuori ad un bar o al molo da soli o insieme a ragazze di passaggio, ritroviamo nei protagonisti un profondo disagio esistenziale nel non riuscire (e non volere) ad evadere la prison doréé della vacuità provinciale che facilmente si tramuta in apatia. Solo Moraldo, sicuramente il più sensibile e discreto dei cinque, alla fine decide di liberarsi dalle catene dell’inconsistenza, prendendo un treno verso una destinazione che resta ignota fino alla fine.
Pur ricorrendo alla sua infanzia, all’adolescenza riminese, a differenza di Amarcord (1973), Fellini non si lascia sedurre da realtà surreali, grottesche, oniriche, i Vitelloni trasuda di malinconia, apatia, disperazione, anche se si intravede nel Carnevale di paese e nella tentata seduzione del capocomico ai danni di Leopoldo, lo stile circense e caricaturale che diverrà la sua cifra stilistica. Cosi come Moraldo che con quel treno si dirige verso una sperata maturità, I vitelloni per Fellini risulterà un trampolino di lancio che lo catapulterà, nelle esperienze cinematografiche successive, verso una dimensione più matura e decisa che parte attingendo alla vita personale del regista per poi arrivare al riconoscibilissimo stile visionario, onirico felliniano.