3. Così le masse prendono coscienza della presenza nella storia

Il nuovo tipo di Egemonia si manifesta in un nesso organico di spontaneità e direzione in tutti i gradi dei “blocchi sociali”. Anche il legame lingua nazionale-dialetti è analizzato da Gramsci in funzione dell’egemonia delle masse popolari che, se vogliono assurgere a ruolo dirigente, devono superare il particolarismo culturale, impossessandosi di più ampi e sicuri strumenti di comunicazione

Tempo di lettura 10 minuti

Terza parte del saggio del professore Alberto Granese sull’Egemonia di Gramsci.

7. Verso il livello teorico-metodologico e il nuovo tipo di egemonia: il nesso organico di spontaneità e direzione in tutti i gradi dei “blocchi sociali”

La filosofia della prassi, invece, che è la concezione del mondo delle classi subalterne, dovrà fondere dialetticamente e organicamente gli elementi progressivi della filosofia classica tedesca con le aspirazioni spontanee delle masse popolari. Il rapporto fra spontaneità e direzione consapevole è molto complesso e insieme fondamentale in Gramsci, soprattutto perché ci fa capire quale conto egli abbia fatto degli elementi positivi che si manifestano spontaneamente a qualsiasi livello e come l’elaborazione dottrinaria non debba soffocare o ignorare quegli elementi, ma stabilire con essi un rapporto circolare di “reciprocità”. Per Gramsci, infatti, la filosofia della prassi non è altro che la sistemazione teorica e organicamente elaborata delle aspirazioni, dei bisogni reali delle masse popolari, è l’esplicitazione concettuale di ciò che in esse è spontaneamente vitale, inconscio e implicito. Questo nuovo conformismo — sempre vi sarà un “conformismo” né esiste l’uomo non conformato: sarebbe un soggetto fuori della storia sociale (Q., 1376) — non è più conformismo imposto “dall’alto”, ma una “traduzione”, nelle “forme dell’ideologia”, degli interessi autentici delle masse che, per mezzo di queste, prendono coscienza della loro reale collocazione nel processo capitalistico di produzione.

In una celebre nota del terzo Quaderno (Q. 3:1930), Passato e Presente. Spontaneità e direzione consapevole, Gramsci stabilisce un altro criterio metodologico fondamentale, indispensabile ai fini di una corretta interpretazione del suo pensiero, dal momento che il campo di applicabilità è vastissimo, tale cioè da comprendere tutti i livelli in cui esso si articola, dall’etico-politico, allo storico-filosofico, all’estetico-pedagogico. In tutti questi settori è presente il ritmo dialettico di spontaneità-direzione, che pulsa in tutti i “blocchi sociali”, dal “molecolare” al “tutto complesso”, dall’uomo allo Stato, attraverso i “blocchi” intermedi, la famiglia, la società, la scuola, il partito. Il nesso organico di spontaneità-direzione è, inoltre, presente nella concezione del mondo delle classi subalterne, cioè nel “senso comune” e nel “folclore”; costituisce un elemento centrale della dimensione estetica e della creazione artistico-letteraria; si stabilisce nel complesso rapporto tra gli intellettuali e le masse popolari, i dirigenti e i diretti, i governanti e i governati.

Questa polarità chiarisce e invera tutti gli altri criteri di metodo stabiliti da Gramsci: la dialettica, la “reciprocità”, l’organicità, la “catarsi”; e il nuovo tipo proposto di egemonia è inconcepibile e irrealizzabile in tutta la sua portata rivoluzionaria, se esclude o privilegia uno dei suoi due momenti. Tutta una serie di concetti, tra loro inscindibili, fa “blocco” con quello centrale di egemonia, sì che non si può non tenerne conto o considerarli marginali e irrelati. Posto che «non esiste nella storia la “pura” spontaneità» e che in ogni movimento cosiddetto spontaneo è quasi sempre presente «un elemento primitivo di direzione consapevole, di disciplina», Gramsci passa a difendere il gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo», accusato di essere «spontaneista» e «volontarista», con una serie di argomentazioni di taglio decisamente metodologico. «Questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna» (Q., 330).

La «teoria moderna» è il materialismo storico, la filosofia della prassi, che non si innesta organicamente sull’elemento spontaneo, se prima questo non venga “purificato” da tutte le componenti estrinseche ed eterogenee che lo inquinano e lo alterano, quali quelle diffuse, attraverso il “senso comune”, dall’ideologia della classe dominante. La spontaneità, quindi, non va eliminata o “rimossa”, ma va educata, indirizzata, attraverso, si badi bene, non la sovrapposizione, ma lo stimolo, la dialettica interazione della «teoria moderna», cioè «in modo storicamente efficiente». La “spontaneità” del movimento è «un elemento di unificazione in profondità» e serve soprattutto a impedire che questo si sviluppi come qualcosa «di arbitrario, di avventuroso, di artefatto e non di storicamente necessario»: «Questa unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della “disciplina” è appunto l’azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa» (ibid.). Tra la «teoria moderna» e i sentimenti «spontanei» delle masse non vi è opposizione, non vi è differenza qualitativa, ma solo «quantitativa»: «Deve essere possibile una “riduzione”, per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa» (Q., 331).

In uno dei gangli più delicati del pensiero politico gramsciano, ritorna, in posizione preminente, il concetto di “reciprocità”, nel senso di un «passaggio» degli elementi spontanei alla filosofia della prassi, «e viceversa». È qui il massimo punto di divaricazione, di distanza tra materialismo storico, da una parte, e cattolicesimo, idealismo tedesco, neoidealismo italiano, dall’altra. Questi ultimi ignorano o sottovalutano aristocraticamente gli autentici bisogni e le vere aspirazioni delle masse popolari, rimuovendoli abilmente per conformarle alla propria visione del mondo universalizzata e, perciò, da quelle inconsapevolmente accettata come propria. Le ideologie organiche al domino della borghesia hanno tradito il loro compito storico, che pure era inizialmente progressivo e avrebbe dovuto risolversi nell’elevazione etico-politica delle masse, portandole almeno all’altezza dei concetti teoricamente più elaborati, non emarginandole nella funzione, ricettivamente passiva, di adattamento alla loro situazione sociale dei frammenti «degradati» e incoerenti della filosofia borghese. Il lavoro del materialismo storico diventa perciò complesso, perché il suo primo intervento consiste nel criticare e nello smascherare il “senso comune” come concezione del mondo non organica alle classi subalterne, ma come riflesso introiettato dell’ideologia organica alla classe dominante ed elaborata in funzione dei suoi interessi economici. Come conseguenza di questa operazione critica, dovrebbero emergere, purificati da tutto ciò che è a loro estraneo, gli elementi “spontanei”, dovrebbe apparire «il nucleo sano del senso comune, ciò che appunto potrebbe chiamarsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente» (Q., 1380).

Si noti la puntuale corrispondenza di questa nota di Q. 11 (1932-33) con l’altra di Q. 3 (del 1930): in questa si afferma che la «spontaneità» va «educata», indirizzata; nell’altra, posteriore di qualche anno, il “buon senso”, cioè il «nucleo sano», l’elemento spontaneo del “senso comune”, va «sviluppato». Una volta, quindi, compiuta la demistificazione con le armi della critica, fornite dalla filosofia della prassi, questa non si sovrappone meccanicamente con tutto il suo bagaglio teorico agli elementi spontanei delle masse popolari (pur contenendo in forma elaborata ed esplicita ciò che in questi è implicito ed inconsapevole) ma li aiuta ad autosvilupparsi in un rapporto dialettico di “reciprocità”, in un nesso organico di contenuto e forma.

  1. I rapporti dialettici: folklore reazionario e folklore progressivo, lingue dialettali e lingua nazionale, giudizio estetico e giudizio etico-politico

Gramsci connota il folklore in senso decisamente negativo, ma, dal momento che esso è comunque «un riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo», va particolarmente studiato, perché, se pure presenta strati “fossilizzati” che, rispecchiando vecchie condizioni di vita, sono “reazionari”, è formato anche da strati «che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» (Q., 2313). Di queste stratificazioni va tenuto conto, come ha messo bene in evidenza anche Alberto Mario Cirese nel suo saggio del 1976, Intellettuali, folklore, istinto di classe: esse, in ultima analisi, corrispondono al “buon senso”, agli elementi “spontanei” delle masse; e, come già per questi, anche per le «innovazioni, spesso creative e progressive», contenute nel folclore, dovrà intervenire la filosofia della prassi a mediare un effettivo passaggio dagli elementi progressivi, espressi spesso inconsapevolmente dalle masse popolari in maniera implicita e frammentaria, ad altri elementi progressivi, organicamente e teoricamente elaborati, tali da poter esplicare un’azione egemonica all’interno di un “blocco storico”.

Dalla nostra analisi della dialettica “senso comune” vs “buon senso”, elementi “reazionari” vs elementi “progressivi” del folklore, emerge una coerente applicazione del criterio metodologico generale stabilito da Gramsci nel rapporto tra “spontaneità” e “disciplina” che costituiscono tra di loro un nesso organico in cui è la “spontaneità” ad autodisciplinarsi, attraverso l’intervento mediatore della “disciplina” o “direzione consapevole”. Quest’ultima, infatti, non si sovrappone mai agli elementi spontanei progressivi, al nucleo sano del “senso comune”, per schiacciarli o rimuoverli, ma fornisce loro la possibilità di trasformarsi, di elevarsi da una serie di contenuti frammentari, inconsapevoli, disorganici a forme sistematicamente strutturate ed elaborate, attraverso le quali i ceti popolari possano finalmente prendere coscienza della loro collocazione di classe. Vi è un profondo rispetto in Gramsci per gli elementi spontanei delle classi subalterne, un’ansia sottile di volerli fare emergere in tutta la loro dirompente carica creativa, attraverso la funzione maieutica della filosofia della prassi e l’azione quotidiana del partito politico.

Anche il nesso lingua nazionale-dialetti è analizzato in funzione dell’egemonia delle masse popolari che, se vogliono assurgere a ruolo dirigente, devono superare il particolarismo culturale, impossessandosi di più ampi e sicuri strumenti di comunicazione. Gramsci non intende la questione della lingua in termini strettamente tecnici, ma, considerandola un’espressione socioculturale delle condizioni economiche e dell’organizzazione sociale di una determinata comunità, la pone come problema antropologico e, quindi, politico. Ogni volta che si pone il problema della lingua, «significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Q., 2346).

Il rapporto tra lingua nazionale e dialetti viene risolto da Gramsci in maniera analoga a quello tra cultura egemone e culture folcloriche e, quindi, non è inteso come contrasto di elementi staticamente opposti, perché «tra la lingua popolare e quella delle classi colte c’è una continua aderenza e un continuo scambio» (Q., 730). L’esigenza del recupero dei dialetti e delle culture particolari, pur senza disconoscere l’importanza di una lingua più universalmente comunicativa per l’organizzazione dell’egemonia, l’approccio decisamente sociale e politico alle questioni linguistiche si muovono, ancora una volta in Gramsci, intorno ai principi ermeneutici fondamentali della “reciprocità” e dello “scambio”. La stessa “lingua unitaria” è prospettata in termini di spontaneità naturale, nel senso che questa si potrà ottenere solo se e ne avverte la «necessità», perché «l’intervento organizzato» non potrà creare nulla, ma solamente accelerare «i tempi del processo già esistente» (Q., 2345): la dialettica gramsciana spontaneità / disciplina è sempre riproposta in maniera che l’elemento sistematico e volontaristico non debba in nessun modo prevaricare e imporsi sugli spontanei processi naturali, ma organizzarli e orientarli verso finalità ben precise.

Analogamente, in una nota di Q 14, Critica letteraria. Sincerità (o spontaneità) edisciplina, sostiene che «la sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore […] se disciplinata», perché «l’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla “socialità”»: infatti, quel che risulta «veramente difficile e arduo» è «battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità» (Q., 1719-1720). Questo criterio metodologico di rapporto dialettico spontaneità / disciplina Gramsci utilizza frequentemente nelle note sull’arte e la letteratura, ad esempio, nella distinzione tra arte coatta e arte libera, tra arte programmata, soggetta a pressioni politiche dall’alto e arte spontanea, autentica, la sola capace di creare valori culturali nuovi e rivoluzionari. La polemica di Gramsci è anche diretta contro la critica letteraria “politica” (in senso stretto), burocratico-partitica, ridotta a mero strumento di propaganda e non contro la critica letteraria “politica” (in senso lato), cioè “ideologica”, che, anzi, è dialetticamente unita a quella cosiddetta “estetica”. Critica artistica e critica politica, giudizio estetico e giudizio etico-politico vivono il medesimo rapporto di “scambio”, che abbiamo sempre osservato, la stessa tensione tra spontaneità e disciplina. Questi poli non sono, quindi, irrelati, ma si implicano dialetticamente in un unico giudizio critico che è, insieme, estetico e ideologico, politico in senso lato. In tal senso, un’opera d’arte e un giudizio critico sono dei “blocchi storici”; anche in essi, così come in tutti gli altri “blocchi”, si stabilisce un rapporto di “reciprocità” contenuto-forma, struttura-superstruttura in una complessa organicità pluridirezionale di cui Gramsci aveva avvertito tutta la portata.

Che il rapporto dialettico spontaneità / disciplina sia un criterio metodologico di grande importanza nel pensiero di Gramsci, è dimostrato dall’uso estensivo che ne ha fatto: dal settore socio-etnologico e delle teorie linguistiche ed estetico-letterarie a quello etico-politico. E, pertanto, da qualsiasi angolazione critica si voglia studiare e definire il concetto di egemonia, è impossibile prescindere da questo rapporto dialettico, che costituisce la base stessa di quella concezione, proprio perché il rapporto egemonico non si realizza solo tra diversi gruppi sociali all’interno di un “blocco storico”, ma, anche e soprattutto, a livello molecolare, tra tutti i membri di una società, nelle relazioni interpersonali come in quelle pubbliche, mediate dalle istituzioni.

Anche l’uomo è per Gramsci un “blocco storico”, in cui si stabilisce un nesso organico «di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo» (Q., 1338). L’interazione o “reciprocità” tra i vari elementi che costituiscono l’uomo, cioè questo “blocco storico” a livello molecolare, si attua mediante il rapporto dialettico spontaneità / disciplina, con una tensione catartica verso livelli superiori di cultura e di umanità, di capacità critica e di consapevolezza storica, in cui le componenti spontanee-individuali non siano state mortificate, ma organizzate e autodisciplinate. Già l’uomo, quindi, all’interno di se stesso stabilisce, tra i vari e contraddittori elementi della sua personalità, un rapporto egemonico. Questo rapporto egemonico, inteso come rapporto organico di “reciprocità”, non rimane atomizzato, chiuso in se stesso, ma si svolge dinamicamente e contemporaneamente in relazione con tutto il contesto sociale di cui l’uomo fa parte.

In questo senso, il rapporto dialettico di “reciprocità” è totale, si svolge in tutte le «cerchie sociali», all’interno di ogni uomo e tra gli uomini, tra i gruppi sociali, tra le classi sociali. Ovunque si crea un interscambio, un’interrelazione organica e circolare, un equilibrio dinamico tra elementi diversi, una dialettica tra elementi spontanei e consapevoli, una tensione verso livelli superiori di autodisciplina e di autodeterminazione, verso forme organizzate e armonicamente strutturate di vita, attraverso il superamento catartico dei contenuti frammentari e disorganici. Quando in ogni uomo e negli uomini tra di loro, in ogni “blocco storico”, si crea un rapporto di questo tipo, allora – secondo Gramsci – si crea un vero e proprio rapporto egemonico.

(3 – continua)

Previous Story

4. Da allievi a maestri per un’educazione reciproca all’autogoverno

Next Story

2. Gramsci: occhio alla società civile, ma attenti alle semplificazioni