2. Gramsci: occhio alla società civile, ma attenti alle semplificazioni

La concezione gramsciana non va considerata avulsa dai suoi fondamentali criteri metodologici (come quelli di convertibilità, dialettica, organicità, catarsi, ideologia), perché qualsiasi discorso sull’egemonia e sulla “società civile”, privo di agganci e di connessioni con quei concetti basilari, rischia di falsarne il significato, confondendo, ad esempio, il modello di egemonia, così come si è storicamente realizzato nelle società borghesi occidentali, e quello che viene proposto per una società tendenzialmente rivolta a organizzare forme nuove di partecipazione democratica delle masse popolari e di socializzazione generalizzata dell’attività politica

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Ecco la seconda parte del saggio del professore Alberto Granese sull’Egemonia gramsciana.

4.Il consenso popolare come riflesso dell’ideologia delle classi dominanti

Strettamente connesso con il concetto di dialettica è quello di «catarsi», che riveste un’importanza notevole, se proprio il «momento “catartico”» viene considerato «il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis» (Q., 1244). «Catarsi» in Gramsci èil passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’“oggettivo al soggettivo” e “dalla necessità alla libertà” (ibid.).

Tutto il movimento storico è inteso come un processo continuo di liberazione, come un ritmo dialettico scandito dal «passaggio dalla necessità alla libertà» (Q., 1490), in cui l’uomo è insieme soggetto e oggetto, prodotto e produttore, sempre, comunque, protagonista. Un profondo respiro di libertà pervade lo storicismo di Gramsci, soprattutto quando indica la possibile direzione del processo storico verso un nuovo “blocco sociale”. Il momento della «catarsi» rappresenta, inoltre, il momento delle ideologie, che, quando sono «storicamente organiche […] cioè necessarie a una certa struttura», riescono a organizzare «le masse umane» e a formare «il terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano» (Q., 868-869). Sono le ideologischen Formen, di cui parla Marx in Per la critica dell’economia politica, per mezzo delle quali gli uomini prendono coscienza delle contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione. Attraverso la propria ideologia, divenuta mentalità diffusa e generalizzata, la classe dominante riesce efficacemente a controllare tutta la società, imponendole i suoi modelli di comportamento. La filosofia dei grandi intellettuali e il “senso comune” delle masse popolari solo apparentemente, secondo Gramsci, sono differenti, perché in effetti sono ambedue espressioni di una sola concezione del mondo, che, quando presenta «i caratteri di elaborazione individuale del pensiero», è filosofia; quando, invece, presenta «caratteri diffusi e dispersi di un pensiero generico di una certa epoca in un certo ambiente popolare», è «senso comune» (Q., 1382). Esso, quindi, non è propriamente la vera ideologia delle classi subalterne, né esprime i loro autentici bisogni, ma è un’ideologia «assorbita acriticamente […] disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla situazione sociale e culturale delle moltitudini» (Q., 1396).

La sottile imposizione della propria cultura da parte della classe dominante produce effetti fortemente negativi sui gruppi subalterni, costringendoli a un’incomponibile scissione tra il pensare e l’operare, tra una concezione della vita «affermata a parole», estrinseca, presa «a prestito» per ragioni di «subordinazione intellettuale» e acriticamente acquisita, e un’«altra esplicantesi nell’effettivo operare», cioè quella autentica, che è però tutta implicita, «embrionale» e «si manifesta nell’azione» (Q., 1379). La concezione del mondo delle classi dominanti viene, infatti, acriticamente e meccanicamente adattata alle proprie esigenze da parte delle classi subalterne sotto forma di «senso comune», che solo apparentemente è la loro ideologia, perché di fatto è il riflesso modificato e trasformato della filosofia espressa dagli intellettuali “organici” al gruppo dominante, talmente introiettato nella coscienza dei «semplici», da essere per lo più scambiato per saggezza popolare. È questo un altro principio fondamentale del pensiero gramsciano, perché, proprio nell’acuta demistificazione di un falso “consenso” popolare, su cui un gruppo sociale fonda e giustifica il proprio dominio, viene sottolineata un’altra divaricazione tra il «conformismo imposto» nelle società borghesi e il «conformismo proposto», come momento iniziale del progressivo elevamento culturale delle masse popolari in un nuovo “blocco storico”.

  1. Alla base dell’erroneo concetto di egemonia. La confusione dei livelli: l’analitico-storiografico e il teorico-metodologico

Un’altra distinzione metodologica di grande rilevanza strategica, come successivamente vedremo, è operata da Gramsci tra “società civile” e “società politica”, con particolare attenzione alla prima, più direttamente collegata al problema della realizzazione dell’egemonia. La concezione gramsciana di “società civile” non va, però, considerata avulsa dai suoi fondamentali criteri metodologici (come quelli di convertibilità, dialettica, organicità, catarsi, ideologia), perché qualsiasi discorso sull’egemonia e sulla “società civile”, privo di agganci e di connessioni con quei concetti basilari, rischia di falsarne il significato, confondendo, ad esempio, il modello di egemonia, così come si è storicamente realizzato nelle società borghesi occidentali, e quello che viene proposto per una società tendenzialmente rivolta a organizzare forme nuove di partecipazione democratica delle masse popolari e di socializzazione generalizzata dell’attività politica. Questo errore di fondo non solo deriva dall’avere confuso livello analitico-storiografico e livello teorico-metodologico del discorso gramsciano, ma anche dall’incapacità di porre la concezione dell’egemonia in relazione con gli altri elementi essenziali da noi esaminati che, in ultima analisi, la costituiscono e la chiariscono.

La stessa distinzione tra “società civile” e “società politica”, se è valida dal punto di vista metodologico-strategico, non è pensabile invece storicamente nella realtà effettuale, a causa di un continuo interscambio tra le due sfere. E Gramsci mette particolarmente in evidenza questo secondo aspetto, quando analizza i modelli di egemonia realizzati nelle società borghesi, ma senza proporli come mitici e universalmente validi; anzi, insiste sulla diversità del modello egemonico da lui indicato (pur senza esplicitare le forme concrete della sua articolazione storica) che si può comprendere fino in fondo proprio alla luce di quei criteri di metodo da lui stesso suggeriti. Seguiamo, intanto, la prima fase dell’analisi gramsciana, quella analitica e storiografica, per riprendere, solo alla fine del discorso, l’implicazione strategica della distinzione tra le due sfere di società all’interno di un “blocco storico”.

Nell’ambito della sovrastruttura emergono due livelli fondamentali: «quello che si può chiamare della “società civile”, cioè dell’insieme di organismi volgarmente detti “privati” e quello della “società politica o Stato” e che corrispondono alla funzione di “egemonia” che il gruppo dominante esercita in tutta la società» (Q., 1518). Altrove, diversamente dal Marx dell’Ideologia tedesca, ma come il Marx della Critica al programma diGotha (e non solamente sulle orme dell’Hegel della Filosofia del diritto, come voleva Norberto Bobbio in un suo saggio del 1969 sulla concezione gramsciana di società civile), Gramsci definisce la società civile come «egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato» (Q., 703). La “società politica”, invece, rappresenta l’«apparato coercitivo» dello Stato, ossia il momento giuridico-militare, della dittatura, della forza ed è perciò che si distingue dalla “società civile”; il cui terreno specifico è quello dell’ideologia, del momento etico-politico, dell’egemonia. Infatti, Gramsci definisce lo «Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione» (Q., 763-64).

6.Borghesia italiana e società civile dall’Unità al Fascismo: la direzione etico-culturale (aspetto egemonico) funzionale agli apparati coercitivi dello Stato  

Le due sfere del consenso e della coercizione non sono, però, separate nella realtà effettuale; anzi, la classe o il gruppo di una classe sociale, che, di volta in volta, ha storicamente prevalso in una società, le ha usate in maniera alterna; sì che, in una situazione teoricamente normale, esse dovrebbero collaborare, se dosate in una accorta ed equilibrata combinazione. Se è «pura utopia», infatti, credere che si possa «accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza» (Q., 764), è altrettanto utopico presumere che una classe dominante possa a lungo reggersi al potere, affidandosi solamente all’uso indiscriminato della forza. Anche nella società italiana, così come si è venuta configurando dall’Unità all’avvento del Fascismo, la supremazia del gruppo sociale fondamentale si è manifestata «in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”» (Q., 2010), perché un gruppo sociale, «quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere “dirigente”» (Q., 2010-11).

Si noti come Gramsci tenda a evidenziare che questa combinazione dei due momenti non è propriamente equilibrata, nel senso che l’uso alterno del consenso e della coercizione è solo apparente, risolvendosi di fatto nella seconda che, in maniera strettamente strumentale, si serve dell’egemonia, come di una comoda maschera («cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza»). Inoltre, si è anche osservato come Gramsci ritenga impossibile l’accettazione libera e spontanea della legge, imposta da una classe sociale sulle altre in una società divisa in classi, senza l’intervento della forza e della coercizione. Questo significa che il suo discorso è sempre stimolato da un preciso referente storico, la borghesia liberale.

Passando, infatti, all’analisi specifica di un determinato blocco storico, Gramsci descrive la politica del trasformismo che, dal 1848 in poi, ha consentito al gruppo dominante, espresso dal partito dei moderati, di assorbire gradualmente gli intellettuali dei gruppi alleati e avversari, attraverso una forma di consenso, che è sottile mascheramento di una coercizione di fatto: «La direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo» (Q., 2011). Come si può notare, nel caso dei moderati, la loro direzione etico-politica, cioè il momento egemonico, è esercitato attraverso gli organismi della “società civile”; apparentemente essi sembrano essere predominanti o esclusivi, perché di fatto sono in funzione della “società politica”, cioè degli apparati coercitivi dello Stato, che esprimono la sfera del dominio effettivo. Questo modello di società, in cui vengono abilmente dosati dominio e direzione, può essere valido in senso assoluto, anche per una società di tipo nuovo costruita con la partecipazione cosciente di tutti i cittadini all’attività politica? C’è chi ha inteso, come Galli della Loggia, l’analisi del “blocco storico” risorgimentale come una vera e propria indicazione di strategia politica: Gramsci, con il concetto di egemonia, avrebbe tracciato «un abbozzo di scienza storica» e innalzato il «caso storico della borghesia a idealtipo, a modello euristico di validità generale e quindi indicativo di quelli che saranno e / o dovranno essere le forme e i modi della futura ascesa del proletariato».

Nel secolo scorso, come agli inizi del Novecento, in Italia, la “società politica” si è servita della “società civile”, gli apparati egemonici sono stati usati in funzione del dominio, gli intellettuali delle classi subalterne sono stati fagocitati dalla classe egemone, che, non essendosi preoccupata di promuovere un effettivo progresso culturale delle masse popolari, ha realizzato un “blocco storico” regressivo. La borghesia, che pure si era dimostrata «capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico», subisce come un «arresto», ritornando «alla concezione dello Stato come pura forza», in quanto non riesce più a diffondersi, «ma si disgrega» e, «non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa» (Q., 937). Anche gli intellettuali cattolici hanno tradito la missione evangelica, perciò la posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. (Q., 1384-85)

Questo distacco tra “il basso e l’alto” non è stato mantenuto solo dagli intellettuali cattolici, ma anche dagli intellettuali “organici” alla nuova borghesia, seguaci dell’idealismo filosofico: «Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i “semplici” e gli intellettuali» (Q., 1381). La «rinunzia» a «educare il popolo» (Q., 1367) è per Gramsci il limite storico della borghesia postunitaria; esso implica anche il fallimento, non solo del messaggio evangelico-cristiano, che avrebbe dovuto diffondere la Chiesa cattolica, ma anche del laicismo neoidealista degli intellettuali italiani. Il limite pedagogico-filosofico è anche limite etico-politico e, quindi, di direzione, di egemonia. La borghesia italiana non può assolutamente assurgere a modello di sapienza politica, di capacità egemonica, ma, al contrario, a modello negativo di dominio, perpetrato con la maschera della tolleranza, del trasformismo, della diseducazione delle classi subalterne, tenute per decenni in uno stato di ignoranza e di servaggio, conformate passivamente, nella forma regressiva del “senso comune”, alla propria visione del mondo.

È chiaro che da un siffatto anti-modello non può venire nessuna indicazione strategica al movimento operaio italiano e alle masse popolari. Si tratta, è vero, di attuare coerentemente la rivoluzione democratica borghese, ma ponendosi, nei confronti della borghesia, nella stessa posizione di continuità e insieme di rottura con cui la filosofia della prassi si è posta (Marx) e si pone (Gramsci) dinanzi alla filosofia classica tedesca (Hegel) e alla sua ripresa italiana (Croce). Per il criterio metodologico della “convertibilità” (che, in parte, può essere applicato anche al “blocco sociale” borghese), gli aspetti metafisico-speculativi dell’idealismo sono la “traduzione”, in sede pedagogica, dell’insensibilità verso il problema dell’educazione delle masse e della loro emancipazione; in sede politica, della strategia del trasformismo attuata dai «funzionari delle superstrutture» che operano nella “società politica”; in sede economico-strutturale, del mantenimento delle profonde contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, della divisione in classi e della separazione tra governanti e governati. I vari strati sociali sono «cementati» da una sola ideologia, i cui aspetti metafisico-speculativi, elaborati teoricamente dai grandi intellettuali, hanno, dunque, la funzione sostanziale di occultare le contraddizioni economiche e la pratica corruttrice del trasformismo.

(2 – continua)

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